Per me poesia è sottrazione di ogni elemento superfluo, con aspirazione all’essenziale nudo dell’esperienza, da esporre senza sovrastrutture, con criteri estetici e formali acquisiti che fluiscono spontaneamente, strumentalmente. Musique avant tout chose, avrei risposto molti anni fa – risposta valida, ma insufficiente. È persino pericoloso soffermarsi sulla natura di quelli che sono gli strumenti del linguaggio poetico, quelli che caratterizzano i suoi connotati formali, ritmici, eufonici, retorici, eccetera. Strumenti certamente imprescindibili, ma che non identificano il fare del poiein, solo vi sono asserviti, aiutano a caratterizzarne la natura estetica. Rilke scriveva: “… i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze […] avere ricordi non basta. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza d’attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, solo allora può darsi che in una rarissima ora si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso”; ed Hesse: “… so quanta vita interiore e quanto sangue rosso vivo ogni singolo verso genuino deve aver bevuto, prima di poter alzarsi in piedi e camminare da solo.” La concentrazione massima di molteplici e intense esperienze di vita, dopo averle elaborate visceralmente, fatte sangue, con l’uso naturale e cosciente degli strumenti propri della forma poetica; ricordando sempre la natura sacra e rituale di questa esperienza – su cui tanto si dovrebbe e potrebbe dire – e la magia della serendipità che la contraddistingue, come ricordava Zanzotto. Come ogni forma di bellezza, la poesia si subisce.
le cose che non nomini
e non vedi
non esistono
gli oggetti e le creature
per un tratto
si distinguono
e se poi, figlio, si rivela falso?
benedetto inganno
che sfumando sovraccarica
le nostre intimità
della crepa sanguinante
non dirò la dispersione
ma solo l’occorrenza
di annientarsi nel contagio
della contaminazione
*
osserva la bellezza della contaminazione
lo sguardo ha consistenza
rimodula gli oggetti
per quanto questa terra sopravviva senza
l’uomo
si lascia modellare da quest’indole
infestante
dovremmo ricalcare la pazienza
delle cose
la calma remissiva del pianeta
che si arrende
le arterie quasi occluse da
metastasi d’acciaio
il derma soffocato
il cuore, le risorse
devastate dalla fame
di cosa poi
agiatezza, benessere, piacere
istinto o forse
noia
quest’uomo senza pace
è il cancro della terra
*
un tempo era l’infanzia
profumi senza nome
confusa intonazione
di un addio
quell’espressione tenera
dal volto di bambina
la mente che ripara in una
sciocca fantasia
ma l’isola era verde
la brezza al tempo
amabile
perviene nel presente
col sapore di
tossine
fragore penetrante
che in un primo istante
soffoca
il dono del silenzio
chiamerai
dimenticanza
*
non importa quest’agitazione questi
desideri, convulsioni che dai nervi si
convogliano in rappresentazioni o
in un’azione, complici il
coraggio, o un ebete ottimismo
fissa attentamente gli astri, ma
ricorda che il novantanove per
cento della materia è inanimata
e in fondo il nostro tendere è
quasi avvicinarsi al florilegio del
non essere
la madre silenziosa che risolve
l’indolenza dopo un’iniezione di
endorfina (che svanisce, come in
fondo ogni altra cosa)
un attimo la mano si distende e
cerca l’altro, forse il suo riflesso
un attimo si avverte impermeabile a
ogni cosa, se non all’attrazione
insuperabile di un mondo che
inorganico invita a ricongiungersi al
principio nonché destinazione per
essere tutt’uno con quella natura
morta
*
incredibile la naturalezza
con cui due sofferenze
si intersecano
appena un gesto minimo
la traccia della sillaba
il riconoscimento
sorrisi trasversali
accennano un ricordo
condiviso e discordante
assurda la fiducia che
la consanguineità degli
intelletti sa ispirare
quasi certamente il
più esclusivo dei
conforti
esclude per un attimo
quella separazione
che rende l’esistenza un desolante
soliloquio
Mario Famularo (Napoli, 1983) esercita la professione di avvocato a Trieste. Suoi testi sono apparsi su antologie e riviste letterarie, tra cui “Poetarum Silva”, “YAWP”, “Argo”, “Inverso”, “ClanDestino”, “Menti Sommerse”, “Digressioni”, “Atelier” e tradotti in lingua spagnola dal Centro Cultural Tina Modotti. È redattore della rivista trimestrale Atelier e delle webzine Laboratori Poesia e Niedern Gasse. Suoi contributi critici appaiono su Nazione Indiana e in prefazione a diverse pubblicazioni di poesia; collabora con il ciclo di incontri di poesia e letteratura Una scontrosa grazia. Ha pubblicato le raccolte di poesia L’incoscienza del letargo (Oèdipus, 2018, terzo posto al premio Conza 2019) e Favete linguis (Ladolfi, 2019).