Nicola Romano su «Case sepolte» di Pietro Romano
Se in poesia attendiamo ed auspichiamo di poter incontrare possibilmente versi e forme sempre più pregnanti, ecco giungere a proposito questa raccolta di Pietro Romano che – per formato editoriale, per contenuto e per fiato espressivo – rappresenta senz’altro un’interessante ed attenzionabile offerta di poesia, se non altro per l’andamento acuto e coinvolgente con cui essa sollecita il lettore ad indagare nel proprio profondo, al fine di concretare una sfuggevole realtà che in quanto tale conferisce continui stupori entro quello che l’autore stesso definisce proprio come il “respiro comune”.
E prendono qui avvento tanti interrogativi, svariate considerazioni, tante inquietudini che dalla piattaforma del pensiero debordano poi in una scrittura che mira essenzialmente al sodo, ben controllata e già sicurà di sè, la cui lettura induce a frequenti soste meditative finalizzate a sciogliere il garbuglio di talune annose riflessioni esistenziali, una lettura che è comunque rivelatrice, oserei dire, di spazi nuovi e incontaminati che dal di dentro rivelano anche una certa innocenza e/o genuinità del pensiero affiorante.
Per quello che è il rimando o l’evocazione che nasce in ognuno di noi, queste «Case sepolte» già dal titolo mi hanno fatto pensare a qualcosa che si è per sempre perduta, vuoi in seguito ad una calamità naturale oppure in seguito ad un distaccarsi – forzato o necessario – da un “luogo” affettivo ormai consolidato oppure al separarsi da una personale “corazza” acquisita ed indossata comodamente nel tempo. Ma in questo caso, niente di tutto ciò, ritengo; Pietro Romano è giovanissimo ed è prematuro che egli possa rovistare nelle cose perdute che finora si potranno certamente contare su alcune delle dita d’una sola mano. Pertanto – secondo me – le graduali scoperte e l’improvviso ritrovamento di taluni valori vitali, finora rimasti per egli sconosciuti e quindi sepolti, assumono significato e pregnanza lungo un percorso che ha il suo divenire in quella che è l’accettazione e lo sviluppo dell’«incomprensibile» da decifrare, ed a tratti celato in mezzo a tante – seppur pacate – parvenze d’incredulità.
Da una pagina all’altra tale percorso sembra avere altre sue proficue soste tra le sparse pause come pure nel vasto e muto biancore del foglio, quasi a prendere tempo e respiro per rivolgere lo sguardo verso altre temporanee “lontananze” da avvicinare il più possibile, oppure per sottolineare il fatto, fortemente simbolico, che per addentrarsi in sane meditazioni bisogna saper coltivare necessariamente il silenzio, quel silenzio produttivo che in buona sostanza deve convenientemente punteggiare una buona parte del nostro esistere. Ed in mezzo a tanto biancore giungono come pennellate dei versi lunghi, taluni con aspetti aforistici e taluni con sferzate che spingono a crude e magmatiche riflessioni se per esempio – come egli dice – “solo ripara quel che non ha ombra”, con un evidente e sano richiamo all’immaterialità.
Infine, in particolare, un benefico impulso si ricava, a parer mio, dalla sezione “A quale mondo tornare?” dal momento che da parte del nostro autore vengono indicati e rimarcati quegli innumerevoli chiaroscuri della vita che prepotentemente cercano una piena luce; versi e tematiche felicemente affidati nel suo insieme ad una calibrata coscienza poetica, in questo caso palesemente ricca di fermenti che cominciano a chiedere strada.
pag. 97) Tintinna nell’aria un suono antico. È il rumore di un ciondolo che cade nella notte più nera. La parola che scava solchi nel buio. Il latte di una vita nuova.
(pag.98) A quale mondo tornare se nulla si imbeve di canto? Case fitte di sorte, corpi immemori di sete. Il nostro cercare giunge laddove ci lava via la luce. Come quando dal vetro non si vede e l’insonnia è nebbia che si perde.
(pag. 102) Costellazioni, pianeti, fotoni: l’infanzia è canto del vuoto che stringe. Campi di luce sopra l’avanzare dei cirri.
Pietro Romano (Palermo, 1994) si è laureato in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Ha fin qui pubblicato le raccolte poetiche “Il sentimento dell’esserci” (Rupe mutevole, 2015) e “Fra mani rifiutate” (I Quaderni del Bardo, 2018). Collabora con varie riviste cartacee e online. I suoi versi sono stati tradotti in russo, greco, catalano e spagnolo, e inseriti nell’antologia “Le parole a quest’ora” (Free Poetry, 2019) a cura di Paolo Galvagni.