l'anfibio

L’anfibio di Gabriele Marturano è un libro sorprendente sotto vari aspetti.
Innanzitutto esso presenta una struttura poematica ben architettata, con un proemio e un epilogo che incorniciano la più ampia sezione centrale, e nel suo insieme può essere letto come un’allegoria non distante, anche se a primo acchito non sembrerebbe, dalla Comoedìa dantesca, in quanto le tre sezioni (comprendenti delle sottosezioni) in cui è diviso richiamano i tre regni attraverso i quali l’autore fiorentino compie, come fa anche Marturano, un percorso di crescita esistenziale e spirituale, che, a partire da una condizione d’oscuramento ed abbrutimento, approda alla conquista della ‘sapienza’ grazie all’Intelletto d’Amore.
Variamente questa concezione dell’Amore come viatico alla comprensione del senso ultimo del vivere ha attraversato la storia della Letteratura italiana, fino a costituire, nel Novecento, uno dei temi portanti della poetica di Montale, il quale affida alla figura della Visitatrice una funzione salvifica, proprio come Dante alla sua Beatrice, sebbene in Montale, così come in Marturano il tema assuma aspetti del tutto laici.
E come nella Commedia dantesca i luoghi oltremondani sono metafore di condizioni etico-psicologiche, così nella prima sezione di L’anfibio la tundra brianzola (simile alla selva oscura dell’Inferno), dove l’autore, ancora non del tutto consapevole di sé, s’aggira a tentoni, quale creatura «rarefatta, irrisoria,/ fatta rara, illusoria», raffigura una condizione di profondo ‘peccato’ e disagio interiore, che vengono sanati dall’apparire di una donna (e come risuona in questi versi la lingua di Dante!), che, «Entrata da una ferita, / budella naturale, / di ghiaccio e di strazio / di pece e di tenebre», gli ‘albeggia’ (e questa volta il richiamo è all’Esterina di Montale) l’universo intero.
E tuttavia il male della gelosia minaccia questo amore tutto terreno, lo strazia, lo fa annaspare. A questo punto poiché non sono più sufficienti la filosofia occidentale o la teologia cristiana a rasserenarlo, il poeta si apre al pensiero orientale della riconciliazione degli opposti.
Ed ecco l’altro luogo-metafora: la città di Milano, variegata e imprevedibile, che ingloba periferie del tutto quiete con atmosfere quasi paesane e boschi selvatici e ombrose catacombe, la Milano che l’autore così descrive: «Milano / intossichi e benedici, / illudi, spaventi, / e perdoni». Solo qui, dove tutto può accadere senza paura del giudizio, ‘senza terrore’, si può imparare ad essere anfibi, accettando la terra e il cielo, la realtà e il sogno, e comprendere che «la fragilità di ogni ramo» non è in contrasto con la forza della tigre che l’osserva e che «Le tenebre / danno riposo alla luce».
Ci si potrebbe, a questo punto, interrogare sulla natura autobiografica o meno di questi versi. Se si parte dalla dedica ad una reale e cara S., si dovrebbe rispondere affermativamente, sebbene la natura allegorica, come si è detto, della raccolta sia volta a delineare un percorso in cui ogni lettore può riconoscersi. Ma, se devo proprio avanzare una mia posizione, direi, insieme a Jacques Roubaud, che «La poesia è autobiografia di tutti. La poesia non è autobiografia di nessuno».
Manifestando una profonda empatia verso i suoi lettori, l’autore ha disseminato, lungo questo percorso accidentato, segnali grafici spiegati da accurate legenda e brevi commenti in cui, così come all’interno dell’opera poetica, si trovano echi mitologici, figure dell’epica classica, simboli archetipali, termini settoriali. Né sfugge il peculiare impasto linguistico di questa poesia, il cui registro, pur potendosi definire mediano, non di rado attinge alla colloquialità come alla letteratura d’ogni tempo, arricchendosi via via di metafore originali, di accostamenti imprevedibili, facendo sfoggio di palpitante mutevolezza e di una bella sonorità che si sfrangia nei testi attraverso molte figure retoriche di suono.

Franca Alaimo