Le calme d’agosto
come facevo a capire dove fosse la luna, quale la finestra lungo l’elusiva rappresentazione delle calme d’agosto quando si raccolgono per difetto le intensità circolari fra la bocca il seno e la distanza e se mi abbandonassi scivolando col sudore delle mani [nelle polveriere delle vene al fluire congiunto sovrapposto all’illusione che di noi fa solo un [fiume non descritto mancherebbe certamente la misura che ci lascia distinguibili tracce di corpi senza petali un’alfa senza seguito di limiti presunti e mai sistemi per quanto estemporanei sull’obliquo scendere dei sensi ma un movimento impercettibile di labbra riporta i picchi e le [cadute spazzando il fermoimmagine – vedi il desiderio – dalle inferriate [quando si sollevarono in volo i corvi lasciarono grani di nero tutt’intorno] la luce ridotta a pallore mi trattiene legato all’àncora di questa maledetta dissolvenza che annebbia [Com’è lui, con che occhi ti ha cercata e le mani, ha le mani?] era sempre giorno era sempre notte era noi la danza felliniana che ci ruotava dentro finché i corvi non si sollevarono in volo lasciando grani di nero tutt’intorno [e tu, sei regina o stai lucidando scarpe senza lacci di un uomo senza sogni?] lasciami almeno il maestrale e qualche mentina vorrei scavare… vorrei scavare in quell’addietro nello specchio labirinto ingenuo forzata distrazione di un noi che si perde dietro l’accappatoio sulle maioliche sterili e fuori marciapiedi irraggiungibili senza una parola vorrei dirti di stanotte o del mattino ma ci ingoia la distanza in cave diverse millimetri fra noi dove passano cavalli e s’alzano le polveri a raggiera verso i lampadari siamo garofani senza involucro nei controvasi che precipitano sotto i tavoli i piedi nell’acqua quasi fermi in un mutuo ferirsi di attese ai bordi mettiamo i punteruoli alle caviglie e disponiamo i cerchi delle dita attorno alle bandiere parliamo di stasera“Credo che la poesia sia più uno stato d’animo che una lingua; ovviamente una condizione della propria interiorità espressa poi in un certo linguaggio che non è quello diario. Una lingua accomuna un popolo, mentre il linguaggio poetico è soggettivo sia per l’autore che per il lettore. La poesia è anche conoscenza e la conoscenza, da sempre, significa libertà.”
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Sebastiano A. Patanè, nasce a Catania nel 1953 sotto l’acquario di febbraio. Fin da giovanissimo coltiva la passione delle lettere che comincerà a sviluppare con impegno negli anni ‘80 quando fonda il centro culturale e d’arte “Nuova Arcadia” salotto di poesia e sede di numerosi reading.
Presente in diverse riviste ed antologie nazionali ed internazionali del periodo, alla fine degli anni 80, primi ’90, dopo la separazione dalla moglie, abbandona la scrittura e comincia a viaggiare per il mondo. Quindici anni dopo, nel 2008, riprende a scrivere con l’intenzione di non smettere più.
Sue poesie sono rintracciabili su diversi autorevoli blog tra cui Poetarum Silva, La stanza di Nightingale e Neobar. Nel 2010 la Clepsydra Edizioni di Anila Resuli ha pubblicato “Poesie dell’assenza” in E-book.
La poesia di Sebastiano A. Patanè si presenta come una ricerca di interlocutori fini e aperti alla meraviglia rappresentata dal mondo e dal salto nella dimensione della scrittura. L’istanza che la contraddistingue è dunque di carattere dialogico. Essa presuppone una fiducia totale, sconfinante nell’abbandono alla poesia come ricerca per mettere a fuoco stati d’animo complessi, situazioni ai limiti del percepibile, in una lotta con la forma e l’indicibile che sembra proporsi di continuo, senza tregua. In tale contesto il lettore resta affascinato da segni ed aperture improvise, il ruolo, ad esempio (nella sua poesia), delle mani è assai emblematico. Le mani indicano, vagano inquiete, esprimono amore e sono il simbolo di una presenza che è soggetta alla precarietà esistenziale. Dice infatti il poeta:
“…e se mi abbandonassi scivolando col sudore delle mani
[nelle polveriere delle vene…”.
Poi nel secondo testo aggiunge:
” [Com’è lui, con che occhi ti ha cercata
e le mani, ha le mani?]
Alle mani che ostendono l’umanità, comprese anche le sue ossessioni, fanno da contraltare i passi compiuti (protagonisti i piedi), per intraprendere il viaggio interiore agognato, ma in alcuni casi veramente compiuto in tutta umiltà, per comprendere prima di giudicare. Ci vengono incontro le strofe finali della terza poesia:
“…siamo garofani senza involucro nei controvasi
che precipitano sotto i tavoli
i piedi nell’acqua quasi fermi in un mutuo ferirsi
di attese ai bordi
mettiamo i punteruoli alle caviglie
e disponiamo i cerchi delle dita
attorno alle bandiere parliamo di stasera”
In un’esigenza di rappresentare il movimento, si coglie il senso della dialogicità, quel verbo “parliamo” che è più di un’esortazione, rappresenta infatti una “quasi” dichiarazione di poetica. Nei testi si apprezza anche la tensione formale, tra il ‘parlato’ di un certo livello e lo stile ‘alto’ della scrittura. E’ un passaggio che si pone in modo naturale, senza forzature, proprio nella direzione di quella dialogicità che sintetizza le altezze e le istanze del quotidiano. I versi, lunghi solitamente, presentano analogie e anafore, prevale, come punto di vista, il “noi” rispetto alla soggettività dell’io, è una scelta pericolosa, sempre a rischio di smarrimento e perdita della tensione emotiva, ma adottata con serena convinzione. In tale contesto è possibile concludere che questa poesia abbia ancora molto da regalare nella sua apertura di orizzonti e di comunicazione, elementi ineliminabili per chi è davvero poeta. Marzia Alunni
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