Quando, ben 5 anni fa, una Savina ancora sconosciuta mi mostrò i 9 racconti che costituivano il primo nucleo di quest’opera, ne fui letteralmente folgorata. Ora sono 13, sono stati riveduti e corretti, portano l’impronta di una più matura capacità di scandagliare le cose e l’animo umano, ma conservano, intatte, le caratteristiche dell’inimitabile voce di un’alchimista incantatrice che in segreti alambicchi crea purissimi distillati di vita dal sapore intenso, capace di stordire.
Se si è in grado di assaporare bene si possono riconoscerne gli ingredienti, immergersi nel retrogusto di quel sapore, intuirne la provenienza, ma si resta comunque spiazzati da quella sua vocazione animistica, da quella sorta di percezione lenticolare che, nel dar vita ad ogni cosa, ad ogni oggetto comune, crea atmosfere palpitanti, mirabili universi paralleli costruiti con i colori della terra e del cielo, dove si dipanano, da gomitoli logori ed attorcigliati, le storie dei figli di un dio minore, magma potentissimo da cui si impara ad osservare il mondo in modo sghembo, attraverso incredibili quanto insoliti varchi, talvolta invisibili interstizi tra le righe di verità ufficiali. Perché lei annulla la realtà e poi la ricrea intensificandola, in un processo dal forte sapore surrealistico.
Sia che si assista, come in Undici, all’agonia e alla morte di 11 migranti al largo dei Caraibi, sia che si segua la storia di solitudine ed emarginazione di Maddalenina in “ Mia figlia follia”. Oggi, con questo libro, facciamo un ulteriore passo indietro, in una fetta di tempo che va dall’ultimo 800 alla metà del 900, in un viaggio che attraversa la storia della nostra isola e ne mostra i più importanti nodi irrisolti, causa di un malessere non ancora sanato.
In un ordine che è sostanzialmente quello cronologico S. individua con chiarezza i mali dell’isola e rende, in una dimensione di grande poesia, la struttura conflittuale della realtà, lo scontro tra il vecchio ed il nuovo, la rassegnata accettazione di leggi non scritte ma scolpite sulla terra e sui monti, tra gli alberi ed i campi di 20 passi per 20. Pur se non mancano gli empiti di ribellione e la consapevolezza di una dignità non più calpestabile.
Il viaggio ha in qualche modo un andamento circolare che, così come accade per il villaggio marquesiano di Macondo, conferisce alle vicende narrate il carattere di una “terribile logicità”.
Nei primi due racconti, infatti, la politica ufficiale si traduce in un indiscriminato disboscamento per una produzione di carbone dalla quale i carbonai dell’isola, ancorati a pratiche di pura sussistenza, sono totalmente esclusi.. Negli ultimi due assistiamo invece, dopo il sostanziale fallimento del piano di Rinascita, alla violenta risposta del nuovo stato, non più regno ma repubblica, nei confronti di una risorta e male intesa balentia. Si tratta di una sorta di discesa nei gironi di un inferno universale ed insieme nostro, dove le belve che ostacolano il cammino continuano ad avere colori danteschi: cupidigia, violenza, frode.
Perché la sardità di Savina non è un fatto solo anagrafico, ed anche se la nostra isola si fa emblema di una realtà ben più vasta, sono i cocci di una storia negata a riemergere, una storia che, rimossa od ignorata dalle pubblicazioni canoniche e dai libri scolastici, abbiamo letto per intero nell’abbandono di monti sventrati, nei paesi color di seppia, nei latifondi incolti, nelle epidemie che falciano i bambini, nelle foreste disboscate di cui può rimanere traccia in alberi solitari dove poter metter fine, con un cappio, alla propria vita. E ci si ritrova, ogni tanto, a riguardare quella strana copertina, bellissima ed inquietante, criptica come la scrittura che custodisce, dove quelle scarpe accampate in primo piano lasciano intuire tutta la pesantezza di certe esistenze rievocate per assenza: di chi, fantasma sulla propria terra, non può essere soggetto di storia.
Esistenze sgangherate, tutte “di identico inizio, e con poche varianti sul finale…”. Non ci sarebbe bisogno dei nomi per raccontarle, basterebbe quel “c’era uno, una volta…”, che attraversa, come una poeticissima anafora, il terzo dei racconti, perché la vita, in certe contrade amate ed amare, è comunque una disgrazia, e non solo per chi è “nato di 800” ed attende, dal secolo a venire, progresso e felicità.
Naturalmente sono quei corpi a raccontare, attraverso istinti e passioni, sogni e bisogni, in brandelli di vita quotidiana, una storia importante, LA STORIA, perché non c’è bisogno di citare Camus per affermare che lo scrittore deve essere sempre dalla parte di chi la storia la subisce.
S. affronta con cruda lucidità temi importanti, ma anche difficili ed in qualche modo abusati, e lo fa come sempre in modo personalissimo, in un misto di sublime e di grottesco, in una scrittura emotiva ed istintiva, di una purissima sensualità.
Nel leggere queste pagine spesso sono riandata a certo Saramago, ed in particolare al suo “Memoriale del convento”, a quel modificare il susseguirsi degli eventi attraverso una narrazione fantastica ma scrupolosamente legata alla cruda realtà. Perché S. trasfigura i fatti attraverso una scrittura aspra ed incantata dove la vita si racconta e si declina tra incanti e disinganni .
Ci muoviamo così tra squarci realistici che spargono quasi a caso date annotate con cura per meglio spiegare guerre e falsi sogni industriali, rivendicazioni annegate nel sangue (4 sett. 1904), occupazioni di latifondi (8marzo 1950), o epidemie mortali (1967). Ma anche tra invenzioni surreali che, autentici surplus di realtà, trasmettono vitalità nuova ad un mondo che nuovo non è, evitando ogni caduta nel moralismo o nella deteriore politicizzazione.
S. entra ed esce con mano sicura dalle storie, gioca con i personaggi, li accosta e li separa, li fa dormire nella stessa pagina per poi riconsegnarli ciascuno al proprio spazio. Procede per narrazioni parallele che li confondono. Costantino il latitante e Pietro, uno dei baschi blu scesi nell’isola per catturarlo, hanno la stessa età, la stessa storia e sogni non più grandi di loro: forse perché in Puglia ed in Sardegna gli alberi sono percorsi dalle” identiche rughe di volto amato”, ed il mare è uno sconosciuto che rende orfani. Di Padri trucidati od emigrati in Argentina. Ed ognuno scoprirà se stesso negli occhi dell’altro, quando si fronteggeranno, in un finale dove come sempre il surreale intensifica la realtà, e trasforma l’orrore in bellezza.
E in ogni racconto Savina spande fiori, sempre con le spine. Rose o biancospini. Muti testimoni di dolori individuali o collettivi. E’ sotto un biancospino che un annoiato barone prende possesso di una delle tante sue cose, una piccola “serva” undicenne dai capelli troppo neri per passare inosservati. E’ accanto ad un biancospino che la madre di un giovane sindaco raccoglie il corpo senza vita di un figlio che voleva vedere tutto il paese spiccare il volo assieme a lui.
E, ovunque, gli stessi miseri oggetti. Scarpe. Le uniche per tutta una vita, dalla maturità alla vecchiaia, o il secondo paio per l’inverno, o ancora quelle in cui navigano piedi bambini fermati da carta appallottolata sulle punte. E quelle inservibili di un padre latitante, allegre per i ricordi dei balli trascorsi, e l’unica che si spera di trovare nel fiume a ricordo di una moglie suicida. E poi valigie, di cartone, dove i ricordi lentamente si consumano insieme ai sogni. E piccoli pezzi di specchio ammuffito. E silenzi, interminabili quando anche la natura diventa omertosa. E solitudine, che avvolge tutti indiscriminatamente, tanto che ci si spaventa se qualcuno ha bisogno di noi. Una solitudine che fa parte dell’ordine naturale delle cose, e che neppure la solidarietà riesce a vincere. In “Anno santo” i compagni di Salvatore interrompono l’occupazione delle terre per aiutarlo a cercare la moglie. Ma poi si eclissano, perché “impari a convivere con il proprio dolore”. Un dolore che ha odori, rumori e volti familiari: il raschiare della pentola grande di alluminio, la scopa di canna sul pavimento, una libellula che arriva dal fiume, l’unghia grossa di un alluce, un orto, l’ala ripiegata di un fenicottero. Cose povere e dettagli splendidi, ammassati disordinatamente come in una originale natura morta. Un mondo concreto fatto di quotidianità amara, sogni che sanno di vino, libertà che profuma di pesce arrosto ed alloro sulle porte del paese, dove il progresso ha il ritmo cadenzato delle traversine di una ferrovia che non annulla le distanze, o il deflagrare di esplosioni in gallerie dove a 20 anni la barba diventa bianca.
In quel mondo nero di carbone o verde di prati e acetosella, tra uomini dai volti “di cuoio annerito” e donne dai poteri sciamanici che custodiscono l’amore ma possono parlare con bocche come lame e “servire orgoglio ai propri figli cena dopo cena “ è difficile essere bimbi ma anche adulti, pur se tali si diventa in fretta, talvolta in un solo giorno, naufraghi in scarpe e cappotti smessi.
Il futuro che avanza è un’oscura marea che cancella l’antico ma non conosce regole di salvaguardia sociale, in uno scenario dove la logica del potere e del profitto parlano lingue straniere e dove i drammi esistenziali , ingoiati dall’eco della storia, nascono spesso da un appuntamento mancato con essa. In “La pietra” Liccu, il pastore che porta in sé lontani echi leopardiani e desolazione sartriana continua a vivere nel tempo della natura, ciclico ed eterno, mentre quello della storia, implacabile, continua a sottrargli tutto ciò che gli era familiare, persino le case e le strade, ormai “nere e pulite da foglie e odori rassicuranti di animali con i quali condividere i passi”. Accanto a lui, immobile, il gigante silenzioso, il nuraghe, simbolo di una storia rubata.
Per questo la pandemia dell’invidia e di una balentìa male intesa, nate da una inconsapevole ignoranza “perché prima di tutto c’è la fame’’, imprigionano gli animi in una vischiosa catena di odio ed immobilismo. Dove “le valli, i mandorli, il monte, giungevano, ammalianti, a dire così è stato e così sarà”.., chi tenta di cambiare il mondo non si avvede dei rancori “che si celano sotto la crosta di una terra avvezza a guardare tutto dal basso” .
Perchè se ad essere baroni si “impara da bambini”, per volare le ali sono sempre “fragili”, e chi porta parole di libertà, se è “ abituato a scrivanie dove la grandine non rompe le lattughe”, spesso non può capire a fondo chi è solo stanco di zappare.
Quando però la consapevolezza arriva ha l’odore della passione amorosa, e con quella viene scambiata, nel racconto “l’arida”, da una moglie che non sa spiegarsi la luce strana negli occhi del suo uomo.
Perciò Savina ci mostra anche “quanto alti possono apparire gli uomini che hanno ritrovato l’orgoglio”, perché forse davvero, come dice Borges, “il destino consta in realtà di un solo momento, quello in cui un uomo sa per sempre chi è”. Ed allora a Buggerru persino il mare “ manda dalle sue caverne i propri buoi, …a morire come tori sull’arena”… A Cabras invece è il maestrale, “giunto dal mare biforcuto” a frantumare in farfalle l’accidia del paese” e a tutelare per sempre“ il fiato delle canne sulla laguna”.
Non è una scrittrice facile S., ma il fascino della sua scrittura sta in una strana ed imprevedibile mescolanza di grazia e potenza. L’esplosione dei suoi colori, l’imprevedibiltà delle sue metafore, alimentate da una semantica che gioca con il senso comune, insieme a certe acrobazie sintattiche e lessicali, assonanze e dissonanze, nate queste ultime talvolta da un felice quanto inconciliabile scontro tra le strutture di due lingue, quella italiana e quella sarda, contengono una straordinaria forza eversiva. Una forza che ora si fa coltello e scava nella carne del lettore, ora immagine aerea che traduce in stupore la pesantezza del vivere. Mentre una vivida e sottile ironia mantiene intatta la freschezza di un mondo in cui le tragedie sono annunciate da inquietudine di cormorani, parlottare di aironi e gentarrubia, e la solitudine di un giovane uomo decretata dalla miopia dello sfrigolare di natiche acchiappamaschi.
E a poco a poco, nel mescolarsi ed intrecciarsi di dolori, desideri, ansie, sogni ed egoismi , speranze e delusioni di un microcosmo sommerso , dalla polifonia delle voci diverse pian piano emerge la sinfonia di un noi in cui lentamente si dileguano le storie singole per dar luogo, in uno spazio distorto ed antiprospettico, alla crudele tessitura di un’unica trama, quella universale del vivere.
Il tutto guardato insieme dall’alto e dal di dentro, in una scrittura che nasce dalla metabolizzazione profonda di mondi arcaici, dove “i vecchi hanno voci piene di meraviglie”ed aiutano a dire l’indicibile: quel miscuglio di sventura e bellezza che è sempre la vita.
Come già detto tante volte, si può ricorrere, per spiegare Savina, alle lenti deformanti delle avanguardie 900esche: espressionismo, simbolismo, surrealismo. Tutto legittimo e vero, perché lei è cresciuta tra quella letteratura, ed è ancora più vero quando si parla di realismo magico. Tanto che per quest’ultimo, ricorrente leit motiv di diverse letture delle sue opere, siamo andati a cercare le somiglianze tra terre colonizzate ed eccentriche rispetto all’asse della letteratura occidentale come la Sardegna e l’America latina. Entrambe sono caratterizzate da culture minoritarie che hanno saputo resistere all’assorbimento di culture più forti e mantenere vivacità e magia grazie alla trasmissione orale di un sapere che custodisce un intero mondo negato . Perciò, quando parliamo della scrittura di Savina non etichettiamola, ma semplicemente ricordiamo che porta in sé, in primo luogo, la voce di una storia rubata, di una poesia che, dai pittogrammi nuragici nei quali si può ormai credere, così come era accaduto per quelli colombiani, non ha mai smesso di cucire l’isola in una vivace, itinerante stoà , e che, come affermava Miguel Asturias per le sue Antille, quale “linfa , fiume, mare e miraggio”, si è trasmessa a Savina attraverso un padre incantatore ed una nonna dagli occhi azzurri, colorando la sua di cunicoli, peste e fantasia.
Ed è stata proprio quella fantasia ad insegnarle, ancora bimba di difficile infanzia, come sia possibile e soprattutto bello rivestire di iridescenti pannelli la cruda nudità della vita.
Senza dimenticare che lo scavo della scrittura porta alla luce frammenti di inconscio, fragilità di faglie interiori, facilmente riconoscibili perché ricorrenti. Anche le più intime e personali. Come i muri di solitudine e di emarginazione interiore.
E così scopriremo, attraverso le labbra secche di Lucia, “L’arida”, che muore di maternità mancata, che il famoso susino di Maddalenina non era affatto secco, se capace di creare, in una sorta di filiazione spirituale, vite come quelle che la nostra Savina riesce a regalarci.
Ogni madre (ed. Il Maestrale 2012)
Anna Maria Capraro