Che ne è del tempo trascorso. Mi fermo. Durata e successione non mi riguardano.
Alloggio sulla pagina. Inesorabile la gerarchia dello scritto.
L’essenza è nel ricordo, nel presente dilatato.
Si scende dal tempo, in certi posti ci sono momenti.
Appare indispensabile oggi fare quello che mi va, anche se è domenica e una stagione è finita, ho dichiarato pace finalmente. Appare indispensabile tornare nei luoghi del passato.
E’ lontana la strada dell’infanzia, i bambini giocano, stessa luce negli occhi, le ginocchia sbucciate. Nel cortile della casa azzurro cielo gli alberi sono cresciuti, stesso il verde del cancello. Avevo una volpe, chiedetelo ai vicini, di quando mangiò la mia cornacchia e delle tartarughe e i porcellini d’India. Appare indispensabile avere il cuore libero ed è stonata questa malinconia.
Occorre vivere – ma non è indispensabile. Impastare un dolce – oggi, quasi vitale.
La volpe scappò e mangiò la cornacchia. La tartaruga morì, i cuccioli furono regalati al tempo del trasferimento.
E i fiori? Erano dalie e margherite, fuori misura le loro corone.
Che ne è stato dei fiori?
Da bambina mi pettinavo sul balcone pensando che i miei capelli finissero nei nidi degli uccelli.
Oggi sorrido delle manine, della perizia nell’osservare i nidi, e continuo a pettinarmi sul balcone. Passarono anni prima che venisse fuori che i miei capelli erano ricci.
Anni di spazzole, pettini, forbici. Corti lunghi medi, trecce code e berrettini, lacca e pure brillantina. Non c’era modo di dare un senso a quel contesto. Fino a quando non furono lasciati, in un’estate pigra, abbandonati a se stessi, trascurati. Dall’incuria vennero fuori onde perfette, delle sfumature del grano. I capelli dicono.
Non ho memoria di fiabe ad alta voce, la mia voce a voce alta la ricordo.
Libri con qualche illustrazione. Mia madre ricamava accanto alla finestra, su quel cortile mondo.
Quando nelle orecchie cresceva il prezzemolo e nella bocca della stufa c’era un lupo, la notte lo vedevi. Quando la pellicina sul labbro bruciava e il dentino stava appeso.
Quando la nonna andava in cielo e il gatto no.
Dentro gli occhi, nelle mani, il viola spento della malva, l’odore del sapone fatto in casa, materassi all’aria, il rosario delle sei. Cinque lire tra le dita appiccicose al fondo della tasca stropicciata, pasticche bianche e gelatine verdi, nella giacca, sempre quella.
E dici grazie, e presenterò. I saluti dei grandi saranno serviti. Le condoglianze alla domenica, lo zucchero impacchettato col caffè. Mai le mani in mano, il cuore sulle labbra.
Le scarpe della festa di vernice, fiori ricamati sul gilet, il manto della recita azzurrino, la carta velina e i festoni e la notte il cuscino bagnato. L’orco era in casa. Era dentro l’orco.
Mi insegnarono presto che gli uomini e le donne sono diversi. E avevano ragione.
Le donne sono la coscienza del mondo.
Il corpo lo conobbi da un manuale in bianco e nero, in bagno, il rubinetto della vasca aperto.
Le lunghe corse. Quelle che scappi. Di quando ti perdi. Con il kilt e lo spillone a sinistra, coi calzettoni e le cosce sempre calde.
La libertà, la libertà, la libertà. Un soffio dentro.
La primavera arrivava sempre, anche se nel letto c’erano lenzuola di flanella.
Matasse all’aria, l’ago enorme a ricucire strappi, i piselli da sgusciare, scorpacciate di ciliegie, rubate, come le noci. Come l’amore. Spiato, immaginato, proibito. Che non è l’ora.
Ci sono vite benedette come il sonno dei bambini,immacolata la piega del lenzuolo steso a quattro braccia. Le mani a coppa, una caramella al volo, schiocca il soldino nel salvadanaio.
Una giravolta, la stessa filastrocca, piroetta di fogli nascosti celati a se stessi dicono ancora – Meraviglia.
‘ O questo o quello ‘ se sono stato povera non l’ho mai saputo.
C’era un conto in Svizzera che diceva papà, e capii che non esisteva verso la maggiore età.
Ci sono sempre stati mutui da pagare, mura da finire, soldi da risparmiare. Ma ho sempre avuto tutto, anzi di più. Perché tra il questo o il quello si inventa un mondo.
Devi sempre scegliere e tante volte lasci perdere. E inventi e usi e riusi e non butti niente.
Neanche la paura.
Quando si è poveri si riciclano i giornali, e si leggono dalla prima all’ultima pagina.
E poi si mettono da parte, per la sarta, o la vicina.
Un’arancia servita nel piattino ed era festa.

Carmen Morisi è nata il sedici marzo millenovecentosettanta. Vive in Abruzzo.