Per fortuna ho avuto un’infanzia felice.
La domenica del corriere non mancava mai nel contenitore accanto alla finestra, quella che dava sul cortile della casa azzurro cielo, abbracciata da un bel cancello verde.
Uno spazio, quello, in cui accadevano cose magiche davvero. Forse, ma forse, qualcosa avvenne che non doveva succedere, il ricordo è vago da non poter cominciare.
‘Qui c’è una bella piazza, qui c’è la fontanella, ci va a bere la pecorella’
Un soldino cadde nella neve e non fu mai ritrovato.
Vado. Il passo impone leggerezza. Il tragitto è lo stesso.
Le onde divennero schiaffi, le colline salti, un sipario il grembiulino a scacchi.
Quando tutto era racchiuso in quei dieci volumi blu, nello scaffale di mezzo della sala da pranzo,
poco frequentata, poco riscaldata. Dieci volumi blu a volte impolverati rattoppati con lo scotch.
Quale fosse la casa dell’amore se lo chiedeva spesso.
E più se lo chiedeva più non trovava risposte, o meglio le trovava, ma non coincidevano.
La casa dell’amore è un luogo dove poter essere se stessi, bene.
Dove per stare bene nessuno ha rinunciato a nulla. Benissimo.
Dove l’equilibrio c’è, ma non ha portato alcuno squilibrio. Ottimo.
Se lo chiedeva spesso quale fosse la casa dell’amore, e più se lo chiedeva più non trovava risposte.
Ma qualche esclusione cominciava a farla: la casa dell’amore non sempre coincideva a quattro mura, non sempre conteneva gente inginocchiata alla preghiera, non sempre si nutriva nello scorrere dello stesso sangue. E’ un posto dove dietro un sorriso non c’è altro che quello, dove nessuno dice amore, perché è nell’aria. Ci sono orme che invitano e non costringono.
La casa dell’amore è un luogo che c’era prima. E si nutre di questo
No, non siamo la sola somma degli errori commessi. Di tutto ciò che non abbiamo riconosciuto. Delle occasioni, aspettative, illusioni. Cadute, mancate, disilluse.
I fiori che non cogliamo restano nei nostri occhi. E ognuno ha un prato dentro dove il tempo è un canto. Siamo una somma sì. Della nostra prima neve, di tutte le nostre prime volte e di quelle che verranno. Di ogni volta che hai creduto.
Semplicemente non sopportava che la vita fosse tutta lì
Era spesso altrove e ne visse tante, di vite, o forse nessuna
Provai: ‘stamane sul ramo di un giovane alberello cantavan gli uccellini…’
La maestra ci assegnò un compito. ‘La Primavera’, con un disegno, una poesia, una filastrocca, un tema o in un qualsiasi altro modo ci fosse congeniale. Io mi perdevo spesso nel verde della valle, dalla finestra alla mia sinistra. I pensieri li riordinavo ad ogni richiamo, nei riquadri a rombi delle lunghe gonne a mezza gamba, al tempo del passo della mia maestra. Nella, sempre tra i banchi, sempre. Continuai su un quadernino, di quei formati che non si trovano più.
Il filo rosso. Sulla punta delle dita.
La biblioteca era lo svago invernale. E l’inverno era lungo.
In certi luoghi, in certi contesti, la biblioteca può essere svago.
Mia madre prese a rifiutarsi di comprarmi libri. Li trovavo da Concettina, lo spaccio del paese, dove c’era di tutto, dalla saponetta alla mortadella. Poi scoprii la biblioteca, vicino all’edificio della scuola. E lì iniziò l’avventura. Avevo una scheda personale che firmavo e mi sentivo grande.
La ragazza si chiamava Giuseppina e nel pomeriggio la trovavi a giocare a battaglia navale con il suo moroso. Che bello avere un moroso e giocarci a battaglia navale in una biblioteca.
Era sempre gentile e sorridente, non dava mai consigli, solo aspettava.
[Mai, mai tradire il tempo della lettura. La lettura assottiglia l’anima come carta velina.
Fitta nebbia polverosa dalle memorie del sottosuolo e le epifanie a imporre nuova luce.
A volte giri a vuoto in un vortice che torna su se stesso. Da Omero a Joyce.
Ma che magia! Quanto sonno rubato e restituito di vita. I libri letti ci abitano dentro e segnano lo sguardo. Dilatano le età. E sei bambino sempre e sempre vecchio. La lettura, solo, può sconfiggere il tempo, e la scrittura. Sono tutti dentro i libri che leggiamo.
Le parole ci crescono, plasmano i nostri paesaggi. E i nostri vuoti]
Nessuno di oggi sa dei miei occhi bambini.
Non sanno delle mani screpolate, della cornacchia appollaiata sulla spalla, del fiocco bianco sul grembiule blu. Del corteo di cuccioli, di tutti gli animali pianti e seppelliti.
Le cose cambiano mentre le vivi. E non tornano. E un trasloco dirotta un’esistenza.
La Natura è qualcosa di cui non so parlare.
Il silenzio è cresciuto tra le montagne, nutrito dalla lotta di chi la doma la natura.
Di chi la ama di struggente impotenza. E la forza si confonde e forgia i tratti, gli umori.
Inconfondibile la gente di montagna. Vera, cruda. Come il lamento della bestia, come il vuoto della pianta abbattuta che lascia nuova luce al sottobosco. Naturalmente, senza preamboli o troppe spiegazioni si viene su. Pomodori e conserve in agosto, vino, funghi e sott’oli in autunno, agnelli a primavera. Singoli destini, inesorabili come le stagioni.
Intristisce anche, la natura. Intristiscono i fanatismi, i convertiti del momento, l’artificiale santificazione della cosa perduta, rifugio dello spaesato.
Quante cose ci sfuggono. La natura no, se ce l’hai dentro.
La natura ti tiene, non ti consegna ad altro. Oggetti o sentimenti. Da possedere, da consumare.
E’ nato lì questo sentire e vi torno col pensiero, nel ricordo un sorriso ignaro di denti bianchi di speranza, rugiada sul germoglio che non conosce la gelata.
Il vecchio morì con gli occhi aperti e nel suo letto. Era quello il desiderio della nonna che invece tornò al paese a passo d’uomo, dentro un carro funebre. Era marzo e c’era la neve. Le comari attendevano alla fonte, grappolo di scialli neri e visi bianchi, i fazzoletti in pugno.
Si invecchia così, sotto gli occhi di tutti e dietro i nostri, guardandoci quanto basta a non ammettere paura. Si muore da soli, al bordo delle cose, se lì avremo saputo collocarci, con il distacco della sera, se avremo voluto coltivarlo.
Vado ponendomi sul bordo delle cose lasciando andare ogni torto subito.
Solo non dimentico il male ricevuto.
Il tempo è inesorabile e ci abbruttisce fuori, checché se ne dica. Si invecchia.
Le notti insonni degli anziani. Le albe faticose. Mi angosciano le loro mani, le vecchie fotografie. Non trovo nulla di rassicurante nelle parole, negli sguardi.
Col tempo si torna su stessi, ci si piega. Col tempo si torna bambini. Ci si attacca alla vita.
I bambini. Un rimedio, un antidoto, un vaccino.
Le primavere non sono più quelle di una volta. Ed anche il mio ventre, e i seni.
Tempo. Durata. Successione. Spazio. Azione e contemplazione. Stagioni. Età. Segni.
Il tempo è un cruccio quando la percezione cambia, diventa pesantezza. Insegue e assilla.
Non è più tempo.
Le sedie sono vuote attorno al fuoco, i frutti maturano e poi cadono.
Torno spesso all’infanzia.
Ora che il tempo è altro, stagione in cui si gratta il fondo e la voglia è latente come la speranza.
Torno lì, senza permesso alcuno, senza aprire bocca, senza nemmeno più chiudere gli occhi.
Senza volerlo, spesso. Si scende dal tempo, in certi posti ci sono momenti.

Carmen Morisi è nata il sedici marzo millenovecentosettanta. Vive in Abruzzo.