Il vento occidentale di Gino Pantaleone
Ogni poeta, quando si svolge nella stesura della parola è travolto dall’urgenza di creare uno spazio visivo, il proprio spazio visivo, spazio educato al farsi suono dell’intorno che lo dimora e che in conseguenza lo respira. Ed ecco che, tra le pagine della silloge Il vento occidentale, oggi di nuova edizione rispetto alla precedente pubblicata nel 2007, Gino Pantaleone soffia e lascia soffiare il suono di un incisivo vento, suono corredato di propria consistenza nel corpus di una allegoria che, qui, da lui adottata, risulta realizzarsi del tutto coincidente all’istanza del suo pensiero.
Ho guardato le mie mani
come frutto del reato
la mia anima
come soffio pesante del vento occidentale
La relazione che Pantaleone conversa con il vento è da subito evidente. Relazione mondata da ogni ambigua interpretazione e che, senza indugi, si pone a custodia dei versi disposti lungo l’intero humus di questo suo narrare poetico.
Parlando di relazione nell’immediato suo manifestarsi si dispone in rilievo la funzione dello scrivere in poesia (e non solo) funzione che è sempre e comunque per sua naturale vocazione un atto comunicativo verso il sé e verso l’altro da sé, atto che si e ci chiama all’intero ascolto dell’autentico liberato dalla inopportuna grancassa del rumore odierno nell’adesso espresso in termini di molesto rumore occidentale che per inciso “soffoca l’uomo” – asserisce Pantaleone – l’uomo che si è inchinato all’Occidente obliando la delicata chiamata dei “fiori di campo” a farsi germoglio, malgrado tutto, tra le insidie di un presente maltrattato dalla invasiva trepidazione del dominio che rende “arida la terra” abbandonata ai “quadri appassiti d’una stanza” per il solo e mero gusto del predare e che il poeta denuncia con convinto vigore nell’attimo stesso del suo ritrarsi all’ostile vuoto del deserto.
Vuoto esistenziale, per intenderci, ed appare chiara l’intenzione esplicativa del poeta di fuggirlo questo vuoto se sin dalle prime parole in nota d’apertura rapporta che “il fine del progresso in Occidente è portare l’uomo a non agire per sua volontà”. A non agire, quindi, la relazione se per relazione, come è stato chiarito, è da considerarsi l’atto ergo l’azione svincolata dalla determinazione altrui che vorrebbe venissero foderate le mani nella chiusura indifferente a quella circolarità dello sguardo che rende l’io in ogni tu prossimo bisognoso di poggiarsi sul tratteggiato dorso di una mano.
Il nostro poeta ha invece il merito di sfoderare le sue di mani per poter guardare e distanziare proprio quel “frutto del reato” colpevole d’avere inaridito gli occhi allungati sulla riva ad oggi svuotata di ogni iniziatica conformazione creativa. Smarrito l’immaginario, immaginario “che prepara l’avvenire” – scrisse Jung – si perde l’estensione del fantastico, quella capacità di disporsi all’avvento di un orizzonte nuovo in opposizione ad ogni portamento consolidato da quel che la ragione da sola non riesce a cogliere e “si perde reale tra gli anfratti / come il tempo che passa, / il tempo perduto” trasfigurato dagli eventi sul filo di una personale cronologia interna che regola lo scorrere del dettato discorsivo nel mondo sotto forma di un preciso messaggio linguistico che rivolge simbolicamente a sé la presenza dell’essere implicito nel processo di cooperazione interpretativa con la memoria (altresì di accordo biografico sociale) investita di sostanziale responsabilità. E, di fatto, il poeta si domanda
[ … ] spietata memoria
perché non parli?
Vi è un fertile intreccio fra memoria e immaginazione, intreccio talmente profondo che fa sì che ogni rappresentazione venga al contempo ri-rappresentata proprio mediante quel processo creativo alla base della funzione poetica aperta dal dilatarsi del pensiero denso di significative risonanze che connettono tutti gli elementi del reale nutriti di memoria e percezione al fine di restituirsi profilo d’insieme assorbito dalla parola in quel che è suo significarsi segno riflesso nel “passaggio di tempo”, del “tempo perduto”, appunto, sottolinea più volte l’autore nel composito suo succedersi nella pagina che preme in un tutto istante lì dove “la nostalgia sarà rimpianto fino a notte fonda” o anche “il tuo corpo occidentale che sarà per sempre nostalgia”, corpo di donna, mi porto a credere, rimandato al corpo di Sicilia dai “sapori antichi” con i suoi “richiami di voci sotterranee”.
Esprime Eugenio Borgna in “La nostalgia ferita”, che “ogni recupero di stati d’animo, di situazioni e di luoghi, che hanno dato un senso alla nostra vita, non è se non immagine e metafora della nostalgia” e in questa raccolta, difatti, il vento soffia in sé anche il necessario essere del poeta nel grembo della sua radice isolana “ho barche che approdano al mio porto / ho pesci a cui do il mio riparo” e “mi specchio nell’immenso di questo mare / rifletto la mia ombra sull’acqua calma e crespa” per poi chiedersi “cosa sarà domani, quando, io, isola, / capirò che questo è il mio destino?”.
Ma qual è il destino dell’io poeta che si interroga. E insieme a lui quale il destino che incrocia l’uomo?
Uomo che sperimenta, oggi nel capovolto dello specchio, la negazione della propria libertà risucchiata da una postura orizzontale che oscura il concepibile di un autentico incontro, radice e matrice dell’impalcatura del possibile, possibile che è reso distante dal suo primigenio fascio di luce.
Aldo Carotenuto, nel suo lavoro “I sotterranei dell’anima”, specifica l’uomo che “si guarda allo specchio, ma lo specchio non lo riflette. E non potersi vedere significa non esistere, non avere identità”, identità che si rende nel reciproco rispecchiamento con l’altrui volto che lo intende.
In tal modo, Carotenuto, attesta che “l’incomprensione e l’emarginazione sono il prezzo da pagare per restare fedeli a sé stessi, e non è per caso che nella vita di tanti ‘spiriti liberi’ si sia allungata la grande ombra dell’esilio”. E Pantaleone è sì! uno spirito libero, libero di restare fedele a sé stesso nella sola verità della parola che vorrebbe risvegliasse dal torpore lo sguardo da troppo tempo tramontato al di là del limite d’antropica appartenenza per cercare “la speranza / in ciò che d’amore riusciremo a dire”.
A tal proposito, Joë Bousquet in una frase ribadisce che “tutto l’amore si china per poterci raccogliere”, parole, queste, che esprimono una maturata forza interiore volta a sollecitare il non arrendersi all’aridità del nulla dal quale è, senza omissione, doveroso tirarsi fuori per non più scorgere “una tensione dentro il cuore”, tensione che paralizza l’animo del poeta, il sensibile di ogni uomo che “chiede pane per un bimbo dalle braccia sottili”.
E contro il freddo che assonna il battito del mondo il poeta “cerca spiegazioni” per il futuro perché “troppo amore stiamo sprecando”, incide come eco che scende in dissolvenza nel profondo sino al fondo del foglio pur anche ravvisabile nel tratto visuale della impaginazione grafica del testo. È un monito o per meglio esprimere mi sorge come un segnale che querela l’indifferenza verso l’umana compassione che reclama ascolto e che per indifferenza nell’indifferenza rimpicciolisce il cuore in un sonnolento passaggio all’ombra del vero che lacrima nella solitudine della parola che si cerca in un sentiero che possa farsi alba e così schiarire dall’inganno le spalle del giorno.
Attraversando la scrittura Pantaleone si fa creatore e lettore della propria vita emotiva ridando in vissuti e in immagini il vissuto dei suoi sguardi, dei suoi sogni, paure e desideri trasmigrati in poesia per allungare un ponte in grado di farsi mediatore di ogni singola dimensione viscerale ed è grazie al supporto degli elementi simbolici (in questa raccolta: il vento) che il linguaggio in versi consente di svelare al soggetto i suoi legami con il mondo e, nello specifico, con il suo di mondo in termini di conoscenza, cambiamento e nuova progettualità con modi e distingui espressivi che gli consentono di filtrare l’esperienza attraverso il soccorso a una composizione meditativa predisposta alla cognizione della vivente bellezza se il poeta scrive
[ … ] e la sabbia del mare e il volto di lei,
e la solitudine e con lei la notte
e la inquietudine e con lei la luna
e la voglia di rare parole
e con loro quel senso caro di bellezza.
Salvifica e limpida è la bellezza espressa dal poeta nel suo avvertirla spicchio di un intero notturno che assimila il sentire al prodigio di un buon odore recondito e riconosciuto nel timbro percettivo di delicata espressione sorta nel riposto andare del suo intimo che ancora pronuncia
Ti percepisco semplice
come un panorama notturno
e come un fiore dietro un cespuglio
dall’odore ti riconosco.
È una quartina che tiene sobrietà verbale e delicata densità nel timbro musicale di avveduto in canto.
Sullo stesso tono si affacciano tutte le quartine altre edificate quasi pitture nell’intelaiatura del libro, versificate, anche, in lingua francese nella accurata traduzione di Maria Alessia Misiti, traduzione che non altera la soave scansione dell’intonazione letterale, indagatoria, commossa, solitaria e distesa intenta a raccogliere il tutto esistente e resistente: piante, terre lunari, spiragli di sole, profumi, voci.
Ma restando in cerchio al panorama della quartina sopracitata il respiro si avverte in estensione e il vento, da dietro il cespuglio, si accomoda in tiepida brezza quasi a volere risollevare il poeta e con lui l’uomo dall’incostante e variabile ondulazione dell’occidentale sbuffo geograficamente definito a circolazione zonale. Ragionando intorno al senso contenuto nel lemma circolazione è subito chiara una configurazione a circolo ed è pertanto un cerchio la zona e la zona è l’intero movimento del perimetro spaziale che lì, dove principia si sposta e a sé rientra implica, per conseguenza, la risoluzione (o la speranza) della cura, si potrebbe anche intendere, in un movimento che possa risanare quella antica e a tutt’oggi persistente ferita inflitta da “stelle presuntuose e piene d’odio” nel mentre che “le rondini sono tornate al nido” e “Dio, di tanto, affaccia alla finestra”.
Una finestra che si dischiude innanzi all’innocenza di un bambino che “nel silenzio / canta nenie al vento / [ … ] vede la sua preghiera prendere il volo / e con gli occhi al cielo / accenna un sorriso”.
daìta martinez