Non denuncio alcuni comportamenti e certa poesia. Mi credo poeta e artista. Mi credo tante cose. Mai una certezza. Tendo a essere ripetitivo, lo so, la mia poesia non è bellezza di metafore ardite, di politica, di
ricordi luminescenti, di mistero. Non credo in questa civiltà che, posso dirlo, ci ha annientato. Non posso credere in qualcosa che mi deprime, in quel profumo di caffè che ogni mattina mi ferisce, ma è la verità.
Sarò pure uno che si sminuisce, che non crede in se stesso che aspetta qualcosa accarezzando le proprie
velleità. Alcuni, come me, utilizzano questo filtro di terrore per tirare avanti, io non ho il coraggio che colma
gli occhi di serenità. Non riesco a riempirmi e non riesco a riempire. Mi sento in esilio? Cosa mi rende il sorriso, la resa? È una erosione continua riflettersi con la sorte che più della poesia rende ogni cosa tanto arcana e crudele. Sono lo stercorario che ingrandisce le sue miserie. La vita è sempre stata rumorosa e chi cerca il silenzio ha preoccupazioni. Per questo scrivo, per capirmi. Non è una terapia, la terapia è una visione di poesia che detesto, tutta via credo possa aiutare. Quello che voglio dire e di non cercare sempre nella poesia la rivalsa. Il più delle volte non c’è lieto fine.
Poesie dalla raccolta inedita “Abbiamo discusso dell’aldilà” di Paolo Pitorri
Per pelle abbiamo uno scudo di piombo.
Nessuno pose affetto nel nostro petto
e miseramente ti domandi: chi sei.
Non altro è la nostra lingua
se non lo sminuire della tenera età
che più nera del destino, matura
nell’annientamento. Il nostro credo prega:
“la vita va tolta come un paio di pantaloni”
e non c’è che un fondale dove spogliarsi;
dove scaricare con mano fredda i se
e se stessi, accecati dai lampi, sorridendo
maligni. Conosciamo bene il pallore
dei miracolati: correvano cercando
luce certa, illunando negli occhi la pace.
Ecco la notte e la maggiore:
ci mirano, ci mutano (magari fossimo lupi)
e senza coraggio chiediamo, ai nostri
stentati cieli, l’ultima, bianca, certezza.
E mai permetteremo di distruggere
il già estinto. La nostra consolazione
va difesa dal muschio di madri fetenti,
da chi non crede all’ultima confessione
dell’ultima carezza del mondo:
che sia per mano nostro oppure no.
*
Si attacca al materasso, m’avvolge
parla all’orecchio: domani ci alzeremo.
Perché odiarla, è profetica.
Il suo mare odioso restituisce alle scogliere
barche cariche di sale e paura.
L’orrore è un capitano che mi incita a guardare
non gli occhi, ma la fronte:
così ci si collassa sul grande scoglio.
*
Questo ferisce:
non c’era urgenza nell’ascolto,
per questo ascoltiamo.
Nella cucina dorata dalla sera
il bicchiere di solfato di rame
era dell’esistenza l’ultimo incendio.
Più l’orologio marcisce nella sua pila
più crediamo sia indegno di memoria
il passato. E ridiamo di noi stessi:
Qual era il tuo passe-partout per l’aldilà?
“Non lo rifarei più”, “se solo avesse funzionato”.
Il deprezzare se stessi è già annichilimento.
Tu cosa hai lascito? Qual è il tuo filo rosso?
Sentiamo tanto il calore
della blatta seccata al sole
calpestata dal freddo passo di qualcuno.
*
Neon
Hanno osservato contro luce il mio sangue
ho regalato le mie nudità a donne vestite di bianco.
Tra poco devono tagliarmi, togliere i pezzi, ricucire.
Col volto cianotico fisso mia madre soffrendo
voglio rientrare in lei per non dover più vagire.
Un passo indietro per non dover morire.
Ventidue anni alle spalle per non dover nascere – soffrire.
Tornare in lei dove ero l’unico corpo piccolo
in una sacca amniotica: un universo nero.
Ora sto supino a riflettere il neon.
Adesso dentro di me un paese si dilata,
si espande nel mio corpo – delirando penso:
sono stufo di Londra. Ma arrivano i guanti in lattice.
La vestita di bianco mi regala dieci secondi:
un’anestesia, occhi di cataratta: dimentico come respirare.
Un taglio, uno scoppio, un maroso, un tesauro di emorragie.
Mi risucchia la schiena il nadir della barella.
Mia madre mi parla, mi stringe la mano, è nuovamente la prima volta.
Mi ha detto che sono nati quattro gatti in questa notte “bella”.
È la seconda volta che esco con lei da una stanza di ospedale.
Paolo Pitorri, nato nel 1990, vive nella periferia sud di Roma. Ha frequentato l’università Bordeaux Montaigne 3 e la facoltà di Lille 3 – Francia. Laureato in Lettere Moderne alla Sapienza. Sue poesie inedite sono apparse su YAWP: giornale di letterature e filosofie (rivista online con la quale collabora), su Poetarum Silva e Patria Letteratura per i Quaderni Barbarici, su Il foglio Letterario, La tigre di carta, Atelier poesia, Argo, INVERSO POESIA e Nuova Ciminiera. Ha pubblicato articoli per Altri animali (Racconti edizioni) e per la rivista Euterpe un saggio breve su Sylvia Plath. Fotografa in analogico e intervista per TALASSA, bands del panorama indie, ha già lavorato con band come i Mòn, Gomma, Gigante, Ainè e Coma_Cose… Sempre nell’ambito della fotografia ha curato la mostra fotografica “Elogio all’imperfezione” nello spazio espositivo FONDAMENTA di INSIDE ART – rivista di arte contemporanea e cultura di livello nazionale.