L’indicibile è esperienza di un oltre che solamente la parola poetica può varcare. È sete di una luce che sedimenta secoli di vita nel sangue. È memoria di un’acqua nelle cui superfici è riflessa la mappa del cielo. Con Alejandra es aquì (2010, Editorialdeloimposible) Franca Alaimo restituisce al lettore il racconto di uno specchiamento: è l’intersezione tra due esperienze, l’una dell’autrice stessa, l’altra di Alejandra Pizarnik, che, sebbene la distanza spazio-temporale, figurano come sorelle di un destino comune e condiviso. La raccolta assume così le caratteristiche di una corrispondenza epistolare: Alaimo prova a valicare, con una scrittura aerea e sempre attentamente calibrata, le vie in cui la vita umana si dissolve per stabilire almeno un contatto con una sorella perduta e mai conosciuta, Alejandra Pizarnik. Ad apertura dell’opera il componimento Io ed Alejandra suggerisce la sintonia che l’autrice avverte con la sua corrispondente/corrispettiva. L’infanzia è la dimensione nella quale ambedue placavano il dolore con misture di silenzio e stupore malgrado tutto: “Perché non abbiamo vissuto insieme, Alejandra, / la nostra infanzia disperata che aveva balocchi/ di dolore? Avremmo unito le mani del destino/ sopra di noi, scambiandoci i nostri doni/ di tristezza e i canti degli usignoli, nel buio, / quando non dormivamo, perché le notti erano profonde/ e belle senza la voce ossessionante del mondo/ quando è sveglio (…)”. Già da allora le rispettive sensibilità poetiche andavano plasmandosi sul bisogno di colmare la distanza da un essere verginale, in grado di purificare dal “dolore del nulla”: “quante volte ce ne stavamo a giacere supine sulle piastrelle fredde di marmo del balcone/ a contare le stelle lontanissime e poi pregavamo che/ ci cadessero addosso come gocce di lacrime luminose”. Il desiderio di trascendenza mitiga le ferite cui espone il vivere in una dimensione orizzontale a tal punto da tradursi in preghiere alle stelle affinché precipitino addosso come pioggia purificatrice. Solo il dolore sostanzia la nascita di una parola la cui musica è “di vetri che si spezzano”; una parola che, attraverso le proprie crepe, conduce a “prima del mondo, prima della menzogna che lo ha generato”. Ma in fondo, e questo Alaimo lo sa bene, proprio dal contraccolpo orizzontale dell’essere al mondo deriva la spinta verso le altezze del canto: “Alejandra, com’è stato duro riconoscerci e salvarci. / Con noi ragazze sono stati tutti tosatori e macellai: / le nostre madri giunsero con forbicine d’acciaio/ e ci raschiarono un poco la lingua canterina. / Ma noi la medicammo con qualche goccia di miele. / A primavera piombarono i padri sulle nostre terre/ – barbari e gelosi- e con vanghe, rastrelli e cesoie, / recisero i fiori, potarono i rami, estirparono i tuberi buoni. / Ci rifugiammo di corsa nella nostra cantina e là/ bevemmo coppe di vino viola e ci sentimmo immortali (…)”. Due donne madri di loro stesse, in lotta contro uomini tiranni, che scoprono il segreto della parola antica, immortale, “donne d’amore, Sirene che sanno cosa nascondono le viscere verdi del mare”, Alaimo e Pizarnik. Vite compenetrate dal canto, affascinate nello stesso modo dallo splendore della luce e dal mistero dell’ombra: è nell’armonia fra gli opposti che ambedue scavano sino a lambire la profondità delle piccole cose. E infatti: “Stamattina, guardando una campanula viola, mi è accaduto/ di andare oltre il suo colore e trovarmi in un mare di luce/ e ti sentivo ridere, Alejandra, di quel lieve riso di bimbi/ che sanno ancora di Paradiso, mentre nascondevi il viso/ sul mio petto come una piccola figlia”. Ancora un travalicare, questa volta tra le cose minute, per discoprire la continuità con un’esistenza che Alaimo sente vicina alla propria. Pizarnik non solo è sorella, ma è anche angelo e figlia di cui prendersi cura, reminiscenza di una vita che si è fabbricata da sé scoprendosi partorita dal dolore e dal canto: “nella mia stanza solitaria, ho guardato a lungo la tua foto, / passando l’indice sui contorni del tuo viso, e ti ho chiamata. / Mi è sembrato che mi dicessi: “Ascoltami, cara! Le mie parole/ sono nate tutte dall’amore più grande e negato. Nessuno, / se non il poeta, ama i poeti, il loro modo di essere timidi/ e spietati, la loro fiamma orante sulla malvagità della vita”. La fotografia come reperto che apre all’ipotesi di un varco suggella l’ammirazione che Alaimo ha di Pizarnik: se ne vede come prosecutrice di un’idea di poetica centrata sulla fedeltà alla poesia e sull’accettazione limpida della vita nella globalità di tutti i suoi aspetti. È una corrispondenza a una Pizarnik «interiore», radicata entro un immaginario nel quale Alaimo la sente come corrispettiva e interlocutrice ideale: “Cara Alejandra- scrissi un giorno- solo a te posso dire/ come sono, perché nessun’altra così mi somiglia”. Da ciò discende il grande amore della poetessa siciliana per “le creature senza risurrezione”: “gli alberi, i fiori, i passeri che come fiotti di puro/ movimento attraversano il cielo e il sole e la luna/ e le stelle che cadranno con il Tempo in frantumi”. Il dialogo con il trascendente frantuma la temporalità e armonizza in sé gli opposti. La voce di Alejandra sopraggiunge come presaga dell’opportunità di oltrepassare le frontiere del visibile, ipotesi realizzabile solo a patto che un poeta perda gli occhi: “Mia cara, sono sicura che prima o poi ti accadrà che quella/ tua cosa oscura diventerà una luce accecante. Ma/ noi poeti dobbiamo perdere gli occhi per vedere.” Il canto è risarcimento dell’innocenza perduta e ribattezza ciò che è oscuro in una luce di grande dolcezza, attingibile solo da chi si è compenetrato a fondo con il senso del dolore. Sulla scorta di questa consapevolezza, si prefigura il ritorno a una dimensione edenica, solcata dalla vitalità del desiderio nella sua forma pura: “(…) non dobbiamo piangere quando saremo sole, / quando avidamente morderemo la polpa della mela/ solo trasgredendo ancora potremo ritrovare l’Eden (…)”. La difformità di una simile aspirazione è percepito come suggello dell’identità poetica: “Dicono che i miei versi siano strani e perversi/ perché non provi a spiegarglielo tu, che ricordi/ come il nostro cielo divino si è bucato, lasciando/ il cuore segnato di strappi neri e misteriosi / Loro non sanno quanto sia buio il varco/ da cui le parole ci chiamano e come mai/ non smetta la bocca di gridare qualcosa”. Lo specchio in tal senso assolve, nella raccolta, a una duplice funzione: se da un lato consente un’esperienza di riconoscimento/rispecchiamento, dall’altro spalanca le porte del possibile: “Mentre assonnata allo specchio mi guardavo/ ancora confusa e grata di toccarmi, mi sembrò/ di sentire gli occhi di Alejandra chiamarmi di nuovo/ in basso tra i mostri grigi degli inferi notturni”. Alaimo e Pizarnik sono come inscritte in un canale di comunicazione ininterrotta tra la vita e la morte, tanto saldo è il legame che le unisce nel canto. Il segreto è nel non stancarsi “di aprire nuove porte” e dunque nell’invito a traversare senza paura tutti gli orizzonti possibili: “Alejandra, com’è che la tua anima non trova/ ancora un varco? Mia piccola figlia, non disperare/ il mondo di laggiù è uguale a questo. Non devi stancarti/ di aprire nuove porte. Bisogna lasciarsi andare/ alle cose leggere, all’ombra, al vento e volere che l’aria/ ci tocchi e faccia di noi quel che di più lieve conosce”. Un’unione, quella con Alejandra, sancita dai suoi libri, custoditi come “orfani bisognosi d’affetto”. Pizarnik è creatura ancora viva nel cuore di Alaimo perché anzitutto madre di parole rimaste orfane, da portare avanti e allevare come fossero figlie proprie. La morte si mescola alla vita senza pietà e scorre nel sangue con estrema ferocia: “Sei scesa nel cuore scuro della vita, nella sua più intima/ e necessaria ferocia. È vero, Alejandra: tutto/ ci cade addosso senza pietà, perfino la bellezza (…)”. Sprofondare nell’oscurità è l’unico modo per soddisfare la sete di bellezza. Alejandra es aquì, allora, si rivela non solo un omaggio alla straordinaria poesia di Pizarnik, ma anche alla parola poetica in sé come traguardo luminoso e sofferto. Un omaggio che rende conto della capacità di Alaimo di narrare le crepe dell’interiorità come varchi verso il possibile.
Pietro Romano