
Viviana Fiorentino, In giardino, Ed. Controluna, 2019
La variegata presenza degli elementi vegetali (nel testo d’apertura ne troviamo ben quattro: il rosmarino, la menta, la rosa canina, la lavanda e potremmo aggiungerne un quinto, visto che l’ aggettivo “viola” attribuito al cielo pronuncia un altro fiore) nella poesia di Viviana Fiorentino sembra tentare una sorta di movimento dinamico all’interno della sua personale identità, quasi che il corpo, prolungandosi e fondendosi in quelli, possa acquisire la loro costante misura temporale fra il morire e il rifiorire, che trova il suo mantra espressivo nei termini ricorrenti dell’ ancora e dell’attesa.
Del resto s’instaura fin da subito il controcanto fra buio e luce, se dall’autunno si procede, trascurando l’ordine temporale, alla primavera, come dire dalla caduta del seme nelle viscere della terra al suo esplodere di nuovo verso il cielo, significando il reiterato movimento dal proprio mondo interiore a quello esterno, dal passato al presente in cui il primo rimane (“Del resto ogni cosa accade e per sempre”, pag. 41) comunque incastrato nell’aggettivo dimostrativo “questo”, indicante il rifermento spaziale del presente, in cui la memoria converge, senza lasciare niente all’oblio, offrendosi come una pietra compatta, ben chiusa in se stessa, e però non arida o infeconda: basterà, infatti, metterla a dimora attendendo che il passato diventi, appunto, “questo” adesso e qui, da cui ricominciare: “e pianto pietre/ che si faranno fiori”.
L’autrice traccia, dunque, sulla carta un perenne viaggio esistenziale, metafora di una biografia caratterizzata da spostamenti continui dal sud insulare (la Fiorentino è nata a Palermo) a varie nazioni europee (Germania, Svizzera, Irlanda), in cui la memoria ha un ruolo salvifico di riferimento e di unità..
Il giardino (che sta nel titolo a significare “la” via interpretativa per il lettore), divide lo spazio domestico da quello esterno, e, colmo com’è di semi, fiori, piante, promesse di fioriture, simboleggia lo spazio della rigenerazione e della possibile gioia, a cui il garbuglio emotivo dell’autrice comunque tende, tessendo spesso trasparenze verbali, immagini intrise di luce, pressoché impalpabili.
Infatti, la poesia della Fiorentino, anche quando assume come soggetto poetico la migrazione, raccontata con pietas commossa, dei siriani incalzati dalla guerra (che non è un tema dissonante, ma uno sdoppiamento del proprio destino itinerante in quello dell’altro), ha come obiettivo primo la bellezza di un’organizzazione testuale che privilegi, oltre allo splendore iconico e alla rifinitura lessicale, la sonorità, perseguita, più che attraverso le rime (che non mancano), attraverso un impasto eufonico diffuso, la reiterazione, l’allitterazione, e soprattutto un ritmo come singultante, pieno di pause, che privilegia le parole mono e bisillabiche, come: “No io non so cosa ancora ma” (pag. 13); “o una ruga sul volto” (pag. 14); “tra bocche senza luce / e volti senza nome” (pag. 16): “tu mi dici che la corona” e così via, forse corrispondenti ad una sensazione temporanea di frantumazione dell’io in attesa della ricomposizione.
Quella della Fiorentino è una voce poetica sensibile, ricca di sfumature cromatiche ed emozionali, attraversata da gioie sensoriali soprattutto olfattive, capace di spostare le cose e le esperienze materiali in una zona immateriale che sottolinea la qualità visionaria del suo linguaggio poetico.
Franca Alaimo