FRANCESCA DELLA POESIA DICE

Penso alla poesia come ad un momento di incontro e di ritrovamento. E questo non solo su un piano concettuale, ma anche, e soprattutto, su un piano linguistico – dove il linguaggio deve essere inteso nella sua essenzialità più che funzionalità.

Sappiamo che nella poesia il linguaggio diventa materia, Blanchot ce lo ha insegnato meglio di chiunque altro. Al contrario di quanto avviene nella cd. prosa significativa – dove il mondo scompare perché la cosa pronunciata si sgretola dietro al suo significato e si annulla nella forma concreta e reale diventando pura essenza; in poesia il linguaggio finisce per rappresentare e costituire un “altro di ogni mondo” che cerca di misurare e definire quel vuoto lasciato aperto dalla prosa. La poesia diventa cioè un chiaro nel bosco, per usare le parole di Maria Zambrano.

Anni fa, sempre qui su La rosa in più, avevo utilizzato alcuni versi di Alejandra Pizarnik per rispondere alla domanda Che cos’è la poesia. Forse le parole sono l’unica cosa che esiste/ nell’enorme vuoto dei secoli – scriveva Alejandra ne La notte. Aggiungerei oggi, che sì le parole sono l’unica cosa che resta e la poesia diventa per ciò stesso un atto di responsabilità verso chi verrà dopo. Un’esperienza che tenta di farsi testimonianza, di farsi voce. Una voce oltre il tempo, oltre ogni contingenza.

 

LA SUA POESIA CI DICE

da Concordanze e approssimazioni (sezione, Il tempo indietro):

Tra le clavicole
la casa rifugio di ieri,
con la terra nella bocca e le braccia sospese.
Non è più tempo e le nostre parole
finiranno, finiranno a breve.
Ci guarderemo da lontano,
come si guardano le cose che ci hanno attraversato
senza lasciare un segno.
Ma poi bisognerà alzarle le braccia,
alzarle in segno di resa, anche dopo.
Alzarle in modo visibile che non resti dubbio.

Stesi sotto il peso dei corpi di poca importanza,
rimpiangeremo il rosso intorno:
urlerà la sera dentro le forme e saranno incompiute.


da Concordanze e approssimazioni (sezione, Dalla parte dell’acqua):

Basterebbe il silenzio rotto della sera,
la materna pazienza dell’acqua,
una veglia che tenga a riparo le polveri.

Non è una terra straniera
quella che ti asciuga gli occhi
nell’istante della confessione che cade
e non c’è rumore e sappia farsi sordo
intorno a questa stanza senza più illusione

Riparo lo spazio con la calma della parola,
maneggio gli eventi con cura.

Inedito 2019, (Niente resta uguale)

Niente resta uguale e tutto si ripete.
Confidarsi è una precisazione di quello che precede,
una semplicità che fa durare le cose.
La casa bianca si racconta, cerca orecchie complici.
Ma la casa è stare fuori, è perdonare chi è partito
con il velo dell’allarme addosso.
Tu insegni alla bambina che la luce è un destino
anche quando gli alberi sono spogli e chiedono una tregua.
La bambina corre e correndo toglie l’aria ai gelsomini.
Ha la forza dei ricordi sottili, solo una mosca trema
e pretende la sua parte di veleno.
Dietro il cancello pesci dorati partoriscono piccoli ami dalla bocca.

Ci sono fantasmi in ogni angolo.
Chiedono di essere messi da parte, di essere lasciati andare, di essere presi per mano un’ultima volta.

DICONO DI LEI E DELLA SUA POESIA 

Marco Ercolani (su Rebstein, Versi di confine, novembre 2019).

L’indagine di Marica, affascinata da poeti complessi e appartati dell’avanguardia, come Mesa e Costa, ma anche da poeti contemporanei e necessari, come Annino, Anedda, Ruggeri, appare un’indagine sulle forme del tempo e sulla molteplicità dell’immaginazione, seguendo le intuizioni di Bachelard sul fuoco come fiamma vibrante di candela. (…) Le caratteristiche della parola, in Francesca Marica, sono quelle di una vigile custodia dell’evento poetico perturbante:

Riparo lo spazio con la calma della parola,
maneggio gli eventi con cura

Ma è una custodia attenta, mai innocua. Il poeta non si abbandona a un flusso scomposto di figure ma lo coordina in sequenze precise, razionali ma contemporaneamente sonnamboliche, sospese:

Si perde lo sguardo nel bianco verticale
e dopo anni accade […]

 La poesia di Francesca non chiede di ripararsi dentro nessun canone oggettivo, né vuole linee maestre da seguire. La sua sfida è non appagarsi della propria autonomia linguistica, facilmente raggiungibile con la comune tekné poetica, e rivelarsi come modo, imperfetto e rigoroso, di “intelligere” il mondo attraverso il linguaggio. Il poeta è oggi chiamato a un gesto, a una visione in cui, fuori dalla parola ma vincolato alle sue leggi, vivere il cortocircuito fra suono e senso come atto di ri-nominazione del mondo. Come fisicità ferina del proprio essere creatura viva.

Giacomo Cerrai (su Imperfetta Ellisse, dicembre 2019).

Concordanze e approssimazioni. Qualcosa è sovrapponibile, qualcosa ci si avvicina. Sembra una buona definizione, tra le migliaia, della poesia (e del lettore, inevitabilmente). Poesia, che è forma di descrizione, ma anche di reticenza, o una manifestazione alta del silenzio, di ciò che comunque si vuole che rimanga segreto, dicendo qualcosa che ci si approssima. Da questo punto di vista, che è un punto di vista poetico, ho trovato questo libro di Francesca delicatamente equilibrato. Perché in realtà non vi è in esso niente che dissimuli, non dissimula ad esempio un costante elemento tragico, che non ha niente a che fare con un troppo diffuso piagnisteo esistenziale, ma che riguarda una diuturna elaborazione di elementi dolorosi, siano essi direttamente vissuti oppure frutto di una consapevolezza o una capacità di percezione dell’esposizione della vita – anche in certi dettagli o “minute acrobazie”, ci torneremo – al dolore; non dissimula, di questa percezione, né i vuoti, la parte di nulla incolmabile, né i silenzi, quando il poeta non può che sopperire con le parole di cui dispone, riempiendoli in qualche modo (“riparo lo spazio con la calma della parola”, scrive) o dilatarli; non dissimula l’idea che l’elaborazione del lutto, anche metaforico, o dell’assenza, non può essere artisticamente feconda se la separi da quel quid anche “gioioso”, anche casuale o destinale che pertiene anch’esso alla vita e che ha bisogno di essere accolto con equivalente coraggio, magari “ridendo dei disordini del caso”; non dissimula lo sforzo che ci vuole, anzi il lavoro che si fa con quelle parole ma prima ancora con una “decisione” salomonica di accoglimento o rifiuto nei confronti dei motivi ispirativi che si hanno, e del pudore che se ne prova, un lavoro di cui nei testi c’è evidenza, l’evidenza di una scrittura abilmente “sottrattiva”; non dissimula la necessità, forse l’obbligo, di tenere a bada le emergenze liriche che talvolta la stessa dolorosa materia poetica spinge fuori e che rischiano di condurre al compianto o all’elegia. (…) Approssimarsi significa soprattutto, in fondo, portarsi progressivamente ad una distanza che permette di mettere a fuoco senza abbacinarsi con l’inutile, e anche per la scrittura, come per l’occhio, è quasi una questione di fisica, cioè di una giusta prospettiva dello sguardo.

FRANCESCA E I POETI INFLUENCERS

Amelia Rosselli, Antonella Anedda, Claudia Ruggeri, Mario Bnedetti (l’italiano), Giuliano Mesa, Corrado Costa. Ma anche Piera Oppezzo e Nadia Campana. Guardando altrove, le contemporanee Anne Carson e Jorie Graham. Ma anche Antonio Emaz, Jean Marie Gleize, Jean Michel Maulpoix. E altri mille ancora.

Ringraziamo Marica, scegliendo per lei e i lettori di Larosainpiu, la poesia di Claudia Ruggeri, lamento della sposa barocca (octapus),  tratta da Inferno Minore

T’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
– sentite ruvide come cadono -; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creatura
va a mollare che nuca che capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
ti avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che mossa un’impronta si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.

Francesca Marica è nata a Torino e vive a Milano dove esercita la professione di avvocato. Redattrice e curatrice di riviste e blog letterari, si occupa di critica poetica e poesia visiva. Collabora con Poesia del nostro Tempo, Carteggi Letterari. Traduce dall’inglese; ha scritto – e scrive – di arte e di teatro. Sue poesie sono apparse su vari blog (Poetarum Silva, Imperfetta Ellisse, Rebstein, Carteggi Letterari, Argo, Poesia del Nostro Tempo, Laboratori di Poesia, Vengo dal mare, NiedernGasse, Larosainpiù), riviste e antologie. Due dei testi qui presentati sono tratti da Concordanze e approssimazioni (Il Leggio 2019, segnalazione Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano, XXXIII edizione).