Semplicità, sobrietà, compostezza espressiva sono i tratti distintivi della poesia di Anna Maria Bonfiglio, e che ricorrono nella sua ultima silloge, “Di tanto vivere” edita da Caosfere. Nella quale l’autrice, oltre che a riconoscerli, quasi li rivendica.
Così la sobrietà, nella poesia d’apertura “Canto minimo”: “Ora che la vita stride nelle ossa / ammalorate / la viola incide l’arco minimale / del canto che vorrebbe lievitare. / E l’accompagna un suono / come d’incanto / un incendio che esplode e si fa verso”. Versi bellissimi nei quali si manifesta appena, con pudico riserbo, uno status esistenziale infelice segnato dal contrasto tra la voglia di vivere e i disagi di una condizione fisica dolorosa (sussurrata elegantemente nella rottura metrica dell’enjambement), che si compone, sublimandosi, in una poesia calibrata ai toni più bassi sì che la melodia si moduli al minimo senza forzare le corde della viola. E così anche la semplicità (leggasi “Wait for sleep”, una sorta di manifesto poetico), che la poetessa ammette quale contrassegno dei suoi versi mentre palesa perplessità per i voli pindarici, le astrattezze, le algebriche elucubrazioni di varie avanguardie: “ Non so se è insipienza / questo mio arrocco a difesa / della parola semplice e sguarnita”. Versi quest’ultimi che fanno venire in mente quelli assai noti di uno dei maggiori poeti italiani del secolo scorso, Umberto Saba – con il quale la Bonfiglio ha poche affinità, almeno sotto il profilo stilistico, a parte la predilezione per la semplicità -: “Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo”.
La compostezza espressiva connota l’intera silloge che fa dell’equilibrio formale la sua cifra stilistica. Il che, a mio parere, è ancor più significativo perché le parole scarne, disadorne, essenziali riflesse in modulazioni ritmiche armoniche prive di strozzature o di acuti strombazzanti contengono, smorzandolo, lo strazio interiore che s’indovina dietro la garbata versificazione. Come se l’autrice – di matura militanza poetica e con ottima padronanza dei canoni metrici tipici del secondo‘900 – voglia ritrarsi per non disturbare, per una sensibilità vocata alla riservatezza e per un’avversione estetica a quel declamare le proprie sofferenze che non di rado contagia taluni versificatori al contrario smaniosi di esibire contrappunti esistenziali se non contraffatti di sicuro meno avvertiti rispetto alla Bonfiglio; al riguardo si legga la poesia “L’apparenza” e, in particolare, si ponga attenzione alla quartina di chiusura: “Quello che non appare / è l’ago che segna la scissione / fra il viaggio d’andata / e l’inversione”.
Tra il detto e il non detto, tra quanto detto sottovoce e detto velato da richiami simbolici, nella silloge “Di tanto vivere” affiorano il peso dei rimpianti (“tu che sai / com’abbia perso / quello che avevo a cuore”), delle assenze ( “Nel rito del mattino / manca la tazza in più / sul tavolo di marmo / la sagoma scucita del cappotto” ), del pungolo dei desideri non appagati ( “Il desiderio affilerà / coltelli sulla pelle” ).
“Di tanto vivere” si articola in quattro sezioni: “Discorsi”, “Stanze”, “Atterraggi”, “Miserere”. Ciascuna sezione, pur nell’unità del discorso poetico della raccolta, presenta sfumature differenti, accenti lirici distinti. Si conviene con Valentina Meloni, che firma l’intelligente prefazione, sulla centralità della sezione “Stanze”. La stanza, per la Bonfiglio, perimetra i limiti della smania di vivere, dei desideri rappresi, in una metafora che aderisce al reale: “Un ape solitaria /ai vetri batte l’ali /e sugge vento”; ma è anche luogo dell’amore (“questo raccoglierci in stanze oscure / è un abbraccio di vento / è tremore dei corpi / per il nostro amore”) e di contemplazione e meditazione in cui nostalgia e rimpianti ritornano insieme all’anelito di un autunno – la stagione che l’autrice sembra prediligere – sinonimo di quiete, di tregua nel trambusto della vita: “la coperta sopra le ginocchia / ai piedi il nostro cane / a leccarci le dita”. L’autunno, dunque, le tonalità mai accese ma sempre mitigate in versi dotati di una cantabilità non ricercata e felicemente ravvivata da qualche rima, anche interna, e da assonanze, i richiami al passato segnalano una certa inclinazione crepuscolare (“Lasciatemi tutti i miei fiori finti / il mio salotto retrò / Il Pupo antropomorfo / ròso da ragnatele autarchiche”): e tuttavia la Bonfiglio non si lascia irretire da sentimentalismi e piagnistei propri della stagione poetica crepuscolare o comunque delle sue espressioni deleterie. E se proprio occorre cercare una corrente poetica dalla quale la Bonfiglio, poetessa dall’identità abbastanza autonoma e d’indole spontanea, trae ispirazione, questa non va rinvenuta nel crepuscolarismo quanto piuttosto nell’ermetismo. Le tracce di un residuo ermetismo, rielaborato e congruamente metabolizzato, si rivelano in talune suggestioni simboliche accompagnate talvolta da rimandi mitologici.
Il canto della Bonfiglio però non dà voce soltanto al proprio muto dolore né si rifugia in un solipsismo carico di celati rincrescimenti. Tutt’altro. Si fa partecipe delle infelici condizioni sociali, soprattutto delle donne che vivono in terre inospitali e che tentano un disperato riscatto tramite l’immigrazione, dramma al quale la poetessa dedica versi accorati. A proposito si leggano le poesie della sezione “Miserere” e i versi toccanti di “Salvataggio”: “La notte eterna discendeva lenta / a invadermi le membra, / ad abbuiarmi il cuore / quando un’ombra s’avvicinò al mio corpo / e mi spogliò del freddo degli stracci – / si estese col suo peso sul mio petto / e mi alitò sul viso / fin quando giunse l’alba”. Poesia, quindi, quella della Bonfiglio, anche di denuncia e di solidale compassione per un’umanità precaria su cui grava un incerto e nebuloso futuro: “davanti a noi oscura eredità / da lasciare alla terra”.
Tutto ciò fanno della raccolta “Di tanto vivere” l’esempio di una poesia per nulla pretenziosa che, nella sua dotta semplicità e nel suo soffuso lirismo, fa i conti con “il male di vivere” senza rimanerne succube.

Antonino Cangemi