“La mia realtà/ non sta oltre i cancelli/ o tra i banchi sconnessi del mercato/ e neppure/ nel caos sparpagliato/ delle parole senza epifania. / La concretezza mia/ non si disperde/ nella mediocrità del quotidiano/ o tra i budelli tronfi delle strade/ dove il sozzo fluire/ tracima come pioggia nei catoi. /La mia realtà/ è un’utopia vagante/ che sbatte contro i cardini del tempo/ ma che conduce/autentiche fonie/ a questo assurdo viver da poeta”.
L’utopia – da cui il titolo del componimento con cui D’un continuo trambusto (Passigli, 2018) di Nicola Romano si apre- è caratteristica fondativa dell’essenza poetica. È vagante e atemporale, rigetta la mediocrità del quotidiano e trasporta «autentiche fonie». Su queste si modella una lingua poetica precisa e dolente, scandita dal ricorso a metri classici variamente impiegati. Romano sembra appartarsi in ascolto delle cose, affrescandone la matrice più intima e arginando, nel brulichio del presente, la distanza che separa da esse. A tal proposito, paiono interessanti le considerazioni di Roberto Deidier in prefazione: “[…] Viene da chiedersi, a questo punto, quale sia il vero vissuto di un poeta come Romano. Perché in realtà c’è come una patina sensoriale attraverso la quale i fenomeni giungono al soggetto, per essere filtrati e trasferiti sulla pagina. In questo, Romano è coerente con l’asse percettivo della modernità, a cui però sembra guardare con un certo riservo, cercando (o mirando a cercare) il colloquio con una tradizione più vasta e antica. Insomma, ancora una volta poesia e vita giocano a scambiarsi i ruoli, di qua e di là di uno stesso palcoscenico. Ora Romano è in scena, ora osserva dietro le quinte, ora siede sornione tra il pubblico. Il suo vissuto trapassa, come in un processo di osmosi, tra ciò che gli è più prossimo e saldo e ciò che inevitabilmente crea disturbo e lontananza. Così, allo stesso modo, mutano i suoi toni”.
Il terzo componimento della raccolta, Mutria, sintetizza bene le parole di Deidier. Il sentimento che scora il poeta lo rende permeabile solo alla nebbia che gli si addensa «sull’uscio delle tempie o delle tante linee aggrottate alla fronte». È uno spazio dove agli altri è fatto temporaneamente divieto di accedere, da cui è meglio divergere. Sono giorni, quelli della mutria, in cui fa da padrona «la disillusione per un mondo che annienta le parole»:
“Nei giorni della mutria/ è vietato l’accesso/ ad angeli e parenti/ amici e querulanti/ nessuno può far parte/della nebbia addensata/sull’uscio delle tempie/ o delle tante linee/ aggrottate alla fronte. /Nessuno provi a chiedere/pensieri ed opinioni/ in quel deserto atroce/ dove franta da sdegno/ si catapulta l’anima/ e che nessuno tocchi/la nodosa corteccia/ della disillusione/ per un mondo inaudito/ che annienta le parole. /Forse altri giorni/ ed altre persuasioni/sapranno aprirsi/ al brio d’un filo d’erba/ ma conviene d’imperio/ restare come rami divergenti/ nei giorni della mutria”.
Il trambusto che proviene dall’esterno è stordente. È di un presente incapace di cogliere «l’immanenza del mare»:
“A causa d’intenso traffico/ si prega di richiamare più tardi. /Ma quando saprò inserirmi/ nel ritmo incalcolabile/ della giostra impazzita/ o tra i viluppi sottili d’una bava di ragno? / Sembra già tardi/ l’attimo che batte/e svelare non vuole/ l’epilogo dovuto/ se ogni fibra che smuove/ s’avviticchia nell’ora/ che invoca solamente/ l’immanenza del mare”.
È un io desideroso di ricucire le lacune e i vuoti di un mondo disarmonico con il cosmo. Un io che sa di esistere in quanto «distinguibile coccio d’universo», caduco e precario a un tempo:
“[…] Eppure so di esistere/ in questa turbolenza/ di stagione, io/ distinguibile coccio d’universo/ finito tra i parcheggi dei viali/ perfino il vento/ non sarebbe vento/ se insieme a frasche/ nuvole e lamiere/ non fossi anch’io/ che come foglia tremo”
Romano scava nel mistero che permea il mondo. Lo attraversa con lo stupore di un bambino che si interroga e abbraccia ogni cosa entro il proprio cosmo immaginativo:
“Il tramonto stasera/ non è quello di ieri/ e non sarà domani/uguale ad oggi/Con mescole diverse/ e con gli umori/instabili del giorno/svariano le cromie/ dentro un falò/ di nuvole addossate/ sopra un sole che scende/ nel cavo degli abissi/ dimenticando il male/ che c’è intorno/L’oscurità promuove/ il denso balbettio d’una preghiera/ e il desiderio di tornare vivi/ sui sentieri che servono/ a elidere paure e lontananze/ sperando in un ritorno/ o in un incomparabile perdono/ da maturare solamente lì/ dove puntuali passano i tramonti”
Nello sforzo immaginativo in cui il divenire delle cose si rende percepibile, il poeta coglie autentiche possibilità di riscatto. La poesia è, per Romano, voce cui ancorare il futuro per affidarlo con amore alle generazioni che verranno:
“Non ora che corriamo/ un tempo di frastuoni generali/ e siamo foglie ubriache/ nel vortice di pagine/ che gira solo il vento/ se tempo è questo di contorte trame/ e di questioni grandi come il mare/ che mastichiamo al fumo d’una broda/ stretti nella cucina quando è sera/ e non ora che andiamo/ per le diverse strade degli affanni/ voi col sorriso giovane fra i denti/ e noi con l’aria fredda dentro gli occhi/ Voi mi vivrete quando/ mi perderò nell’hangar delle stelle/ e nel silenzio adulto d’una stanza/ vi porgerò due strisce d’aquilone/ con qualche verso/ cupo o innamorato/ che scrissi con la luna nelle vene”
Questi versi ben esprimono l’essenza lirica di Nicola Romano. La poesia è intesa come un aquilone che attraversa le generazioni e perpetua memoria. È desiderio di votare ogni parola a una carezza che si inveri proprio nell’istante di una nostalgia fonda. La levità con cui D’un continuo trambusto innalza ogni componimento suggerisce una personalità poetica che vive immersa fra due dimensioni: l’infanzia, cui rivolgersi per mantenere viva la culla dei sogni, e la concretezza, dove in un respiro a tratti sofferto si effonde la poesia.
Pietro Romano
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