Fabrizio Ferreri, Corpo a corpo, Ladolfi Editore, 2019

 

Il corpo a corpo presuppone una lotta e insieme un contatto, che nei versi di Ferreri si fa intimo fino alla nudità (“Appesa la veste, nudo contro nudo), e se, come in questo caso, l’altro è l’Assoluto, l’Alterità, Dio o l’Inconosciuto, come ciascuno di noi desidera chiamarlo, più o meno obbedendo a personali convincimenti o a ideologie religiose, allora bisogna inserire questa silloge all’interno di una letteratura mistica la cui presenza mi sembra affiorare abbondantemente tra i versi.
Basterebbe a convalidare questa tesi il titolo di una sottosezione: Deus absconditus, che, se da una parte non può non fare venire in mente una brevissima e celebre poesia di Caproni, che l’autore molto frequenta, dall’altra, con più evidenza costringe a risalire a quella teologia negativa, che, partendo da molto lontano, trova una sua organizzazione filosofica in Plotino, giungendo, via via fino ad Agostino, Meister Eckhart e oltre.
Ferreri, insomma, intraprende un itinerarium mentis in Deum, partendo dall’idea che l’avvicinamento avviene per sottrazione fino a trovare il suo punto più alto nel silenzio, come ci ha insegnato Dante che, al cospetto di Dio, esclama: A l’alta fantasia qui mancò possa, riconoscendo il limite della ragione e della stessa parola umana per esprimerlo; tant’è che appunto, quasi facendogli eco, l’autore così dice della parola: “comparsa che infetta/ che erode/ come una muffa/ la fonazione”.
La difficoltà dell’indagine viene registrata da un pullulare di domande (che non presumono, né vogliono risposte, e che spesso, invece, si contraddicono l’un l’altra), da una sovrabbondanza, direi quasi un abuso, di parentesi, di indicazioni disgiuntive, di termini come crepe, dirupi (che creano nascondimenti impossibili da scrutare), e soprattutto di coppie oppositive, come quella più frequentata “buio-luce” in cui si condensa il più fecondo dei dubbi a proposito dell’essenza divina e della possibilità di definirla, come ci ha insegnato il viaggio nella notte oscura raccontato dal mistico Juan de la Cruz che scrive “Notte che mi guidasti,/oh notte più dell’alba compiacente”, perché la luce in cui stanno le cose è il buio della vera conoscenza e viceversa; perché quella luce, come scrive Ferreri, è l’ “insormontabile seme/ della distanza”.
Ma l’autore, sebbene parta da certi modelli, si scosta da essi per un traboccamento di umana fragilità così che il limite urta contro l’illimite e si ferisce. Non di rado la Presenza-Assenza con cui si misura provoca un sentimento di impotenza, quasi di rabbia, oppure un desiderio di provocazione che lo scaraventa in un groviglio di dubbi e scoramenti: il cielo diventa “un lurido lavatoio”, e l’Altro soltanto “uno sfarfallio nell’aria”, un nulla o un inganno, se non, addirittura, un “ladro galattico”, un “semplice cronista”, oppure una figura indefinibile acquattata o un piccolo animale rifugiatosi in una “scorza d’albero”.
È, insomma, un percorso non lineare il suo, sebbene egli tenti l’ascesa e giunga, infine, in un luogo “tra sonno e veglia/ in cui, oltre la consueta soglia/ la vita, di doglia in doglia come/ folgorata dalla sua dimenticanza/ finalmente si affranca dal suo cumulo/ di materia…”
Il punto di arrivo è, tuttavia, ancora una domanda: “Avvolto nel visibile/ per ciò stesso/ resta invisibile?”. Plotiniano? Forse. Certo è che la via per la conoscenza dell’Uno sta per entrambi nel suo rapporto dialettico con il molteplice, cosi che il mondo fenomenico, pur in antitesi con quello intellegibile, è visto come messaggero del secondo, suo corpo materiale.
Per questo non stupisce che l’ultima sezione sia dedicata alle cose concrete del mondo (sole, pioggia, tetti, case) e ai luoghi che Ferreri ama e che hanno accompagnato lo svolgersi della sua vita: Catania, dove è nato, tanti altri paesi della sua Sicilia di cui dice nella nota: “Questo libro non poteva nascere che in Sicilia (…) dove persino la rinuncia e la passiva assuefazione testimoniano dell’insufficienza della realtà ad appagare”, e, ancora, Milano (presso la cui Università Statale ha fatto un dottorato in Storia della Filosofia) della quale così canta la bellezza e la fecondità operativa: “Milano,/ sei tu alberata, fruttificata/ ovunque/ seminata”, sebbene già nella poesia successiva, tanta fertile abbondanza si faccia territorio di altrettanto “abbondante vendemmia” per la morte, “sposa celeste del paradiso”, che attende ogni uomo dopo il suo “navigare da cima a fondo/ ogni opaca turbolenza”; versi, questi, che suggellano il Corpo a corpo del poeta siciliano.
Se è vero che si avverte l’habitus mentale del filosofo nella costruzione del libro, nel metodo investigativo, nella capacità di sviluppo di una tematica così incandescente, egualmente incisive sono la forza e la bellezza poetica del suo argomentare, che evita il dottrinarismo e sposa il coinvolgimento diretto, talvolta emotivo, di una vivace, duttile interrogazione rivolta a se stesso come al lettore.
Certamente si tratta di una poesia affatto facile, aperta a molteplici interpretazioni che preusuppone un lettore attento e preparato. Ché, altrimenti, gli sfuggirebbero le molti fonti da cui il poeta Ferreri attinge e che non sono soltanto quelle mistico-filosofiche, ma anche quelle letterarie, tra le quali, soprattutto, bisogna annoverare la produzione poetica di Caproni e Luzi, dai quali prende in prestito i suoi esergo.
Di Caproni s’era già detto citando il titolo Deus absconditus di una sottosezione della silloge di Ferreri suggeritogli da un testo dell’autore livornese, a cui, al di là di questo piccolo debito, egli rimanda per la sostanziale condivisione di un’intima posizione filosofica di fronte alla questione metafisica, di cui Caproni fece il suo centro meditativo nelle due ultime raccolte: Il franco cacciatore (1973-1982) – a cui pure rimanda l’area semantica relativa alla caccia abbastanza ricorrente – e Il conte di Kevenhüller (1986), in cui “Dio è infinitamente diverso rispetto a come viene immaginato. La sua disfatta nel mondo è il segno della sua esistenza” (in: “Storia della civiltà letteraria italiana” dell’Utet, volume quinto). Per non parlare della medesima vocazione alle misure classiche del verso e della frequenza delle rime, che meriterebbe un discorso a parte.
Quanto a Luzi, la sua influenza sembra aleggiare in quello stato di sospensione e attesa che attraversa i testi di Ferreri, in quelle atmosfere solo apparentemente concrete ed invece profondamente metaforiche in cui egli si muove come in una condizione purgatoriale. Ovviamente i rimandi, le suggestioni, gli echi sono tanto ampi quanto lo è il sogno conoscitivo, ed è impossibile rintracciarle tutti; ma l’importante è che Ferreri, nel rendere omaggio alla tradizione poetica e filosofica, abbia saputo senz’altro trovare una sua voce, una sua inquisitiva potenza. Questo, infine, è il compito di ogni poeta: non dire necessariamente cose nuove, ma dirle in modo nuovo.

Franca Alaimo

 

Filigrana intravista
in contro-luce appena,
falsariga, cecità
e vista, silenzioso solista
in un coro di sbandate voci, dimmi
sei demiurgo dalle mani invisibili
o semplice cronista?