Animali diversi ed altri versi di Davide Puccini, Ed. Ladolfi, marzo 2021
Nell’usare quale esergo per il suo Animali diversi e altri versi il celebre verso dantesco O animal grazïoso e benigno (Inferno, V, 88), Davide Puccini non solo fa eco al titolo che ne anticipa il soggetto dominante, ma, nel sottolinearne il senso positivo utilizzato da Francesca che così appella il poeta per onorarlo, come palesamente significano i due aggettivi (grazioso e benigno) legati all’etica comportamentale di corte, intende immediatamente riportare l’attenzione sull’etimo del lemma, in modo da aggiungere al palese concetto di essere vivente quello di essere dotato di anima.
Una tale lettura giustificherebbe non soltanto la presenza dei “diversi” (e anche questo aggettivo sembrerebbe alludere all’operazione poetica messa in atto, ché potrebbe essere letto come di-versi) animali che affollano la prima delle undici sezioni in cui si divide il libro, e quella delle piante a cui è dedicata la seconda sezione, ma accomunerebbe entrambi agli uomini stessi (compreso l’autore), protagonisti di quasi tutte le altre sezioni, facendoli partecipi, con il dotarli di capacità creativa, di un unico progetto divino.
Né ci sarebbe da stupirsene, dal momento che tutta la produzione poetica di Puccini appare caratterizzata da toni di profonda spiritualità che nel movimento della vita gli fa scorgere una circolarità d’amore universale tanto da chiamare “cara” una farfalla che si posa un attimo sulla sua spalla, scambiandolo per un fiore, e vedere negli occhi del suo cane: “lo scintillio esaltante d’un barlume/onnisciente di Dio”.
Non mi sembra esagerato affermare che, a tratti, i versi rivelano una sensibilità francescana, un verticalismo mistico che, generando come un alleggerimento di peso, trova la sua immagine più significativa in quell’immersione nella liquidità del mare (soggetto della terza sezione Al mare) in cui non è solo cantata un’esperienza appagante di contatto fisico, ma la sacralità di un lavacro catartico (“Portentoso lavacro/ d’ogni nostra lordura,/ mantieni la tua pura/ immagine del sacro”), da cui sgorga la lode al creato e a Dio (“Nuotare è lodare/ Dio d’essere nato.// Nuotare è pregare/ immerso interamente nel creato.”)
Perfino gli Epicedi della nona sezione, che raccontano quasi sommessamente la dipartita di tante persone care, più che di tristezza, sono imbevuti di tenera accettazione, nella convinzione che la cosa più importante è essere stati creature d’amore se “a chi molto ha amato/ molto sarà perdonato”; tanto che l’autore può guardare alla sua stessa morte con serenità, nonostante il dichiarato attaccamento alla vita.
L’amore per le creature, senza dubbio d’impronta francescana, come già detto, se è talvolta segno di un’adesione spontanea e intensa alla bellezza: “Per quali occhi un tal spreco di bellezza?/ c’è da commuoversi fino alle lacrime,/ noi chiamati a goderne senza merito”, più spesso denota una commovente apertura anche verso tutto ciò che ne sembra privo, quell’attenzione che la Campo definisce quale “lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e e le regole segrete della natura. (Gli Imperdonabili)”.
Senza questa attenzione, si cadrebbe nel descrittivismo, nella riproduzione inerte. E invece Puccini guarda per scoprire nelle forma “nuda e indifesa” del geco la figura della tenerezza; loda “lo smeraldo sul collo del piccione/ con sfumature d’oro” come figura dello stupore che pure si cela nel grigio delle cose più comuni; così come fa con uno scarabeo e un passerotto, la cui “storia triste” finisce con una preghiera per la sua “minima animula innocente”, figura della sacralità di ogni creatura.
Se, poi, nell’ultima sezione Dolci ricordi (titolo giocato sull’ambiguità, come spesso accade nella silloge, e questa volta a causa del possibile doppio uso di “dolci” e come aggettivo e come sostantivo), tutto sembra potersi leggere solo come una minuziosa descrizione delle forme e dei sapori dei dolcetti gustati nell’infanzia in occasione delle varie festività ricorrenti nell’arco di un anno, si ha da tenere in conto che essi sono ancora reperibili, e che dunque la memoria non ha la funzione di salvare dall’oblio cose non più esistenti, ma atmosfere, emozioni, gesti, affetti, sulla scia della madeleine proustiana.
È la nostalgia del mondo pulito dell’infanzia che fa il suo ingresso, che, spezzando la distanza fra passato e presente, lo rende vivo nel qui ed ora; ma che, una volta esaurita la memoria del piacere, si trova a fare i conti con l’altro “sapore” della vita, quello che viene dall’esperienza, così che la carruba se ne fa metafora quasi definitiva, visto che si tratta dell’ultima poesia e della sezione e della silloge: “Ma a me piaceva quel frutto legnoso/ che a masticarlo sprigionava un dolce/ inaspettato, appena disturbato da grossi semi duri come sassi:/ in anticipo il succo della vita”.
Perché è vero, come scrive Giancarlo Pontiggia in prefazione, che “Colpisce, nella poesia di Davide Puccini, l’atteggiamento fiducioso che l’autore nutre nei confronti del mondo”, ma senza che ciò escluda la consapevolezza del male e della sofferenza, estesi a tutte le forme viventi (è sufficiente rileggere la sezione prima dedicata agli animali per accorgersene: la triste agonia del topo, “l’occhieggiare a fatica” della oluturia, l’affannarsi senza requie dello scarabeo), e se essi meno balzano agli occhi è perché il poeta si avvale di armi come l’ironia, l’auto-ironia (che fanno pensare al sorriso quasi distratto di Ariosto), la raffinatezza e la levità del dire, che potrebbe a prima vista essere scambiata per superficialità ed è, invece , quella capacità di cui parla Calvino di convogliare i significati “su un tessuto verbale senza peso”, quella pensosità della leggerezza che fa dire a Valery, citato quale esempio da Calvino nella prima delle Lezioni Americane, “Il faut être léger comme l’oiseau et non comme la plume”.
La “leggerezza” di Puccini comincia da quel tessuto di endecasillabi e settenari che sembrano scomparire tanto sono “naturali”, in accordo con quel ritmo interiore acquisito attraverso una costante e amorosa lettura dei classici, che lasciano nel suo tessuto verbale e iconico impronte visibili, ma delicate, consentendogli un’ampia libertà di attualizzazione e variazione personale dei temi. Pontiggia cita gli epicedi di Archia e Meleagro, Catullo, la poesia alessandrina e Borges, ma vi aggiungerei autori come Ariosto e Pulci, ai quali Puccini si è dedicato con grande devozione, e, oltre ai contemporanei Ramat e Raboni citati da Pontiggia, Fo e l’ultimo Piersanti ai quali l’accomuna la qualità narrativa dei testi.
E tuttavia non è raro trovare nella cadenza prosastica del versificare improvvise e preziose accensioni liriche come, per esempio, in Foglie e pioggia, quando l’autore dice superiori a quelli di un pietra preziosa il brillio e la purezza delle gocce che la pioggia ha lasciato sopra “le foglioline di una pianta qualunque”, ottenendo, pur nella impari similitudine, l’effetto di un raddoppiamento della luce.
L’architettura della silloge è certamente classica: metri, rime (spesso interne), assonanze e consonanze, e figure retoriche di suono e di significato vi abbondano; e, in più, vi si trova una qualità rara, che è quella di fare aderire la qualità dei suoni ad un’idea, come nel testo La libellula, in cui il ricorso al suono liquido e trascorrente della “l” e a quello vibrante della “r” riesce ad evocare visivamente e sonoramente la leggerezza e il fruscio del bellissimo insetto: “Libera la libellula librata/ nel fremito vibratile delle ali”.
Se, tuttavia, Pontiggia trova la poesia di Davide Puccini paradossalmente sperimentale, “proprio nell’adesione ai nuclei espressivi o tematici di una grande tradizione”, è perché l’autore si allontana da ogni scuola e, facendo parte per sé stesso, nel dare voce con genuina verità ai propri moti del cuore, sorride, si emoziona, ricorda, gioca, si conosce e riconosce, indaga il reale, sogna, dimostrando che quel che conta è l’adesione ad una personale e profonda vocazione alla Parola.
Franca Alaimo