Fernando Lena: Black Sicily ArcipelagoItaca Ed., marzo 2020


Black Sicily
potrebbe essere il titolo di un docufilm, uno di quelli che vengono girati per denunciare il fenomeno criminale della mafia che da secoli turba l’incanto di un’isola contraddittoria, dura e petrosa come una varietà pregiata di granito nero, dolce come il miele prodotto da una specie tipica di api nere dell’area etnea. Un ossimoro che sta alla radice di questa silloge poetica di Fernando Lena: “L’altro volto di una terra spietata/ è forse la dolcezza di poterla tenere in bocca/ con tutto il suo dolore velato/ e i suoi canditi di demoni e cristi”.

Black Sicily dà comunque l’impressione di scorrere con gli occhi una sceneggiatura: l’ambiente è il paese che ha dato i natali al poeta e i personaggi quanti lo abitano, testimoni o protagonisti essi stessi dei fatti di cronaca narrati con dovizia di particolari realistici quanto immmaginifici da letteratura noir: spari, carri funebri, seghe elettriche che spaccano il corpo di agnelli pasquali, corpi saltati in aria, agguati, vomiti acidi, “lampioni crivellati”; e soprattutto un abbondante sversamento di sangue, che è, fra l’altro, uno dei termini più ricorrenti in questi testi poetici, e non per ostentazione enfatica, ma in quanto elemento di un immaginario segnato da una lunga esperienza di dipendenza dalla droga che, sebbene ormai sconfitta, si è incistata con tale forza nella psiche da determinare un certo modo di osservare e narrare il mondo, dando luogo ad un codice linguistico di vivissima consonanza timbrica di temi, immagini e suoni, che talvolta virano verso uno ruvido accumulo di doppie e gutturali o verso espressioni del parlato più grezzo e gergale.

Lo scopo è quello di affondare la parola nel corpo oscuro di una realtà che sembra irredimibile, se non fosse per quegli improvvisi fiotti di tenerezza che investono, ma non solo, la materia autobiografica, la quale trova il suo centro nel rapporto complesso e intensissimo con il padre, l’assenza-presenza con cui confrontarsi perennemente, immaginando se stesso figlio “che si sarebbe fatto padre”, nel tentativo di riscrivere una storia di parole e gesti mancati.

Il lutto della morte del padre si allinea drammaticamente a quella di tanti altri individui come lui segnati dall’esperienza della solitudine, per condizione geografica e per condanna destinale.

Tuttavia è da questa condizione comune che scaturisce quel vibrante senso di pietas storico-creaturale che abbraccia insieme vittime e carnefici nella macina di un destino ineluttabile, nella consapevolezza della lacerazione che è lo stare “ignari sul nero/ cuore del mondo”, come recita nel testo “Antracite” un altro siciliano, Bartolo Cattafi, che credo costituisca per Lena un importante riferimento letterario insieme a Sciascia, Bufalino, Verga e molti altri narratori del lutto come stigma isolano.

Mi sembra importante sottolineare come in Black Sicily, Lena si cimenti nel difficile quanto interessante tentativo di trasformare la propria biografia (assumendo il ruolo di osservatore di un insieme di eventi dentro l’accadere del tempo, che si snoda dall’infanzia alla sua stagione attuale) in una sorta di epos tragico, allo scopo di sottolineare l’elemento della diversità di un luogo e di una tempra di difficile definizione battezzata da Sciascia “sicilitudine” come radice del suo disagio e della sua stessa poesia: “visto che ogni volta io/ mi prostituisco al demone,/ ne faccio un orgasmo/ di questo attorno eccitato”.

Questa drammatizzazione stabilisce un rapporto più “letterario”, meno viscerale, fra biografia e poesia e fa della personale disperazione una sorta di categoria universale, che travalica, infine, i confini isolani per attestarsi quale disagio epocale.

Franca Alaimo



I due abeti davanti casa

sono tutto quel che è rimasto
del tuo desiderio di padre,
li hai voluti piantare alla mia nascita
e ora sono quasi cinquant’anni
che non perdono un giorno d’ossigeno
mentre io di fatto ne ho perso
correndo in direzioni mai soleggiate,
ma al buio ahimè ci si abitua
per quel destino da talpa,
ma più che sottoterra
è stato sotto la pelle
che ho cercato a fondo un mondo
tessuto assieme dalle cicatrici.

*

(la piccola città)

La piccola città ha orme di infradito,
sputa flash sui cornicioni
per la posa disincantata di un colombo
o per quel modo di tracciare l’aria
di una rondine, e sarebbe
una parola leggera la nostra
se di tutto quel passato
lasciassimo le cicatrici alle pietre,

eppure riprendiamo la voce
nel trambusto di una moto-ape carica di pane
e mentre cerco di indicarti
da dove proviene quell’odore di fritto
hai già in gola il dono
di un dolce alla ricotta.

L’altro volto di una terra spietata
è forse la dolcezza di poterla tenere in bocca
con tutto il suo dolore velato
e i suoi canditi di demoni e cristi.

*

XXX

È bello che tu dica
quanto io sia fortunato
a vivere in tutto questo verde
e c’è pure il silenzio
e un paese che si abita di auto
e qua e là un pugno di ciclisti
reduci da un girovita plasmato
di pasta e melanzana,
c’è che se fai in tempo
ad aprire le orecchie al giorno
non vieni svegliato
dai soliti petardi quasi ogni domenica
perché è di domenica
che grida la festa di ogni chiesa,
la sua processione e Dio che ride.

Fortunato è colui
che trova nelle ferite la causa,
anche perché a sanguinare
ci si abitua presto
tra questi muri a secco.

Il verde che ricordi
può darsi che sia
lo stesso che ricordo io
delle mimetiche che impazzavano
negli anni ottanta,
sotto il caldo il loro strapotere,
quella premonizione nucleare,
mentre noi strisciavamo
come lucertole per opporci
a un sole d’uranio.

Black Sicily