C’è qualcosa di terribile e di straordinario nella fotografia: “rappresenta un certificato di morte ma, nello stesso tempo, una promessa di resurrezione”, scriveva Bufalino.
L’osservazione dello scrittore di Modica torna in mente, e di essa si avverte ancor più l’acutezza, leggendo l’ultima silloge di Nicola Grato, “Le cassette di Aznavour” edita da Macabor.
Tra le poesie de “Le cassette di Aznavour” e la fotografia vi è infatti una spiccata affinità. Nei versi della sua terza raccolta, in cui si inseguono i ricordi di persone e momenti del passato con al centro le figure della madre e del padre, il giovane e talentuoso poeta – una delle voci più sensibili e originali almeno in Sicilia – sembra volere catturare il tempo, fermarlo e renderlo eterno, certificando, per dirla con Bufalino, la morte degli uomini e delle donne cantati e nello stesso tempo il loro risorgere in una parvenza di eternità.
Versi perciò, continuando a citare Bufalino, di “luce e lutto”, che da un canto fanno rifulgere le modeste e semplici gioie della vita (“Aspettavamo / che venissero dalla casa di fronte / i cugini a portare il gelo di mellone”), il fascino della civiltà contadina e della natura (ricorrente è il richiamo del mare), dall’altro riflettono il declino delle parabole esistenziali e, con l’inesauribile trascorrere del tempo – “vero protagonista della sua poesia”, secondo la prefatrice Franca Alaimo -, mettono in luce le cicatrici e le insanabili ferite che esso arreca sino all’irrimediabile condanna della morte.
La dicotomia “luce-lutto” è presente nell’intero contesto della silloge, ma si rivela in modo palese e quasi simbolico-programmatico nella poesia d’apertura dedicata alla madre, Finis: nei primi tre versi la luce delle stelle, in quelli finali l’agguato della morte. Né mai in Grato la luce abbaglia e l’ombra sprofonda nelle tenebre: nella sua poesia prevale sempre, anche negli aspetti cromatici, la sobrietà. Sobrietà dunque, oltre che nei colori temperati delle immagini catturate nei suoi flash in versi, anche nel registro lessicale volutamente dimesso (si noti l’uso quasi esclusivo dei caratteri minuscoli) ed essenziale, perché dell’essenziale si nutre la poesia di Grato: non è casuale il richiamo, in più composizioni, del pane, dell’alimentazione il bene più indispensabile (“le icone sul muro sono forme di pane”, “l’odore del forno e pane nuovo”, “il discorso sul pane con mio padre”). L’essenziale è nella vita dei paesi e nell’universo rurale ai quali il poeta continua a ispirarsi, seppure più velatamente rispetto alla precedente silloge “Inventario per il macellaio” (Interno Libri, 2018): anche se nelle poesie de “Le cassette di Aznavour” fa da sfondo soprattutto Palermo, la città in cui il poeta è nato e cresciuto, della città risalta l’anima di paese che un tempo e soprattutto in certi quartieri ancora conservava e rimbomba ovunque l’eco dei costumi e dei riti della civiltà contadina.
Se rispetto alla prima raccolta, “Deserto giorno” (La Zisa, 2009), “Inventario per il macellaio” segna un radicale cambio di rotta – e probabilmente l’inizio di un discorso poetico genuino nelle felici intuizioni, tanto elaborato quanto apparentemente elementare -, “Le cassette di Aznavour” si muove lungo lo stesso itinerario della seconda raccolta, ne segue il solco con un un’ulteriore e graduale maturazione sia sotto il profilo contenutistico che formale. Ne “Le cassette di Aznavour” (titolo suggerito da un episodio legato al ricordo della madre), Grato si proietta con più ardita consapevolezza nei meandri dei misteri dell’esistenza e ravviva quella tensione umana, dolente e accorata, che già in “Inventario per il macellaio” contraddistingueva la sua vocazione lirica. Sotto l’aspetto squisitamente formale, permane il linguaggio scarno, disadorno, asciutto coerente con il realismo rustico dei suoi confini poetici, e tuttavia nella nuova silloge si percepisce una maggiore rarefazione della parola, che diventa ancora più spoglia, epurata dalle scorie del superfluo, e la ricerca della sintesi – cuore della poesia – raggiunge esiti più risolutivi; al che si aggiunge una tendenza più accentuata a una pur mascherata inflessione dialettale suscettibile, a mio avviso, di ulteriori sviluppi tali da arricchire una lingua già abbastanza suggestiva nella sua lineare espressività. Il tutto dentro la cornice di una fluente musicalità tipica della migliore tradizione del ‘900 e nell’inclinazione al “racconto” che è un altro dei tratti salienti della sua poesia.
Ne “Le cassette di Aznavour” l’autore capta l’enigma inestricabile del trascendente senza però volerlo esplorare. La sua poesia resta saldamente ancorata all’immanente, a tutto ciò che è tangibile e che costituisce il segno della nostra esistenza. In particolare, sotto questo profilo, assumono un rilievo preminente gli oggetti, testimoni di vite e di costumi devastati dalle leggi severe del tempo. Anche gli oggetti sono logorati dall’incessante e crudele scorrere dei giorni, ma hanno una resilienza maggiore: “Cosa resta di noi? Cosa rimane / dei nostri discorsi, spesso tirati / fino alle quattro del mattino, / cosa dei pomeriggi al bar Rialto / con la pittrice pazza, l’ingegnere, / tutta l’umanità che ricercavi / tra i più soli e disperati, i malati / di cuore e di fegato, gli arretrati – / uomini e donne delle catecombe? / Un bicchiere di vetro, il comodino / di legno, L’imitazione di Cristo / e come segnalibro uno scontrino”. E tra gli oggetti, così presenti nella silloge al punto da conquistare, per la loro sopravvivenza all’esistenza degli uomini, una dimensione quasi “sacrale”, vi sono anche le fotografie (si leggano i versi di “la fotografia delle magistrali” e di “una Polaroid”): quelle fotografie dotate di eccezionale potenza evocatrice, capaci di cristallizzare il tempo e di donarci l’illusione dell’immortalità.
Antonino Cangemi