PIETRO ROMANO DELLA POESIA DICE
Non ho una definizione di poesia. In questo preciso momento nel quale mi accingo a scrivere intorno alla poesia, penso, in verità, a quanto sia difficile trovare parole all’altezza del presente che ciascuno di noi vive. E allora, ecco, forse, la poesia: in quel forse è tutto ciò che prende in noi dimora senza mai trovare soluzione.
LA SUA POESIA CI DICE
da Case sepolte, I Quaderni del Bardo, 2020
Paralisi notturna.
Avanza sopravanza retrocede dimentica discompone leviga articola disarticola beve sfama digiuna graffia dissotterra oblia abbuia inganna chiede scongiura affama affoca nega rinnega ripudia affoga stringe disancora annega disperde geme obnubila dissesta preme teme congiura complotta farfuglia brama freme comprime implode uccide resuscita sradica svelle spella sfiata congela disgela consuma divora vomita incombe incalza
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Presenze estranee:
1. Ma la poesia non ha pareti;
2. Nessun volto è pronto a vivere: per questo supplichiamo
la parola;
3. L’ondeggio delle tende: lontananza che moltiplica la solitudine;
4. Cospira la brezza che ci è madre: incombe sulla nudità dei
corpi.
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Tintinna nell’aria un suono antico. È il rumore di un ciondolo che cade nella notte più nera. La parola che scava solchi nel buio. Il latte di una vita nuova.
3. DICONO DI LUI E DELLA SUA POESIA
Gian Ruggero Manzoni, Per luce dovuta su Le case sepolte.
Le “case sepolte” di Pietro Romano sono quelle che abitiamo, ma, soprattutto, quelle che ci abitano. Questa sua raccolta, profonda, struggente e a momenti terribile, è una delle più avvincenti che ultimamente abbia letto. Del resto, per come risulta, non è un insieme per “anime semplici”, oppure per chi crede che la poesia (in questo caso la prosa poetica) possa trasformarsi in magico esorcismo per rendere più gradevole la vita, oppure consolazione o carezza o speranza. Non a caso quando il tutto risulta un inseguire l’estremo o l’apice dell’assoluto, il gioco risulta oltremodo duro, a momenti criptico, sferzante, anche quando tenta di ridare un senso vitale oppure cerebrale alle asserzioni fatte o, meglio, ricercate, quali ripercussioni di domande fondamentali, di domande che, senza pausa, ti scarnificano dall’interno. Il sedersi sul limite porta a confrontarsi, in ogni istante, con l’abisso (inferiore o superiore che sia). La morte e il tempo sanciscono i rintocchi “dell’orologio consapevole”, come lo definiva Emily Dickinson, così che la risolutezza muta, volutamente, sezione dopo sezione, il diario diacronico della riflessione e delle immagini, consegnandoci singoli sostantivi, brevi abbinamenti verbali, frasi più complesse, incise su lastre che, via via, si sgretolano, con il sopravvenire di quelle a seguito. […] Il linguaggio usato, in tal modo, non può che segnare interstizi in cui il diradamento, la scansione, indicano lo spazio tra colpo e colpo e colpo dello scalpello. Comunque, e volutamente, qualsiasi selezione si tragga da questa raccolta, essa risulterà, quasi sempre, straniante, vaga e innegabilmente intrisa di arcani responsi sapienziali. Per cui non sarà sufficiente leggerla una sola volta, infatti gli schemi di rimando, da frammento a frammento, devono essere seguiti con attenzione, al fine di avere una visione totale di ciò che Romano ci ha affidato. “Case sepolte” è quindi un libro che non si presta a una parafrasi puntuale, molto, invece, lascia all’indagine, perciò alla soggettiva interpretazione. Infatti non ci troviamo di fronte a una prosa poetica che vada a narrare, cioè che presenti un contesto preciso, sta dunque, alla sensibilità del lettore, far parlare dentro di sé il testo, sebbene l’insieme di continuo risulti quale evoluzione di un qualcosa che (oggettivamente) appartiene a tutti noi, ritrovandosi in quella che io definisco “la sintesi degli archetipici dell’interrogazione”. Da ciò si evince che Romano non fa che porgerci una testimonianza sulla ripercorrenza del sé con lo strumento della razionalità, utilizzando un’organizzazione e una strutturazione che comprendono quello che sul tema “attesa” e “cessazione” è stato scritto o, meglio, teorizzato finora. A questo punto si può anche ipotizzare che la scansione dei momenti di riflessione che il poeta ha ritenuto di riordinare in questo libro altro non sia che la successione delle sue fasi di scrittura; ma non solo in questa originale interazione fra lo scorrere della parola e un’istanza riordinatrice risiede lo stile di Romano, ma anche nella prevalenza del lessico sulle costruzioni sintattiche, infatti non molte sono le frasi aventi compiutezza che 7 si rintracciano nell’opera, tante, invece, le affermazioni, ricercatamente tronche (perciò nette, significative, potenti, per il poeta: necessarie), nonché prive di “spazialità di cornice”, che si susseguono. Altro elemento fondamentale è che questa scrittura si pone anche come dialogo, sintonia, ricongiungimento introspettivo e retrospettivo, in cui vari elementi si rincorrono, se non “molti altri”, così che componenti, appunto, come il corpo, il viso, la voce, perciò il suono, il nome, l’identità, il sonno, il dolore, la perdita, l’erranza, la forma acquistano, quale significato, un’urgenza oltremodo dichiaratoria, facendo sì che salvezza o catastrofe possano fiorire, con eguale intensità e pari, liberatorio, abbandono. Pietro Romano ci induce a credere a ognuna di queste sue costruzioni, e, maggiormente, a ogni sua calibrata, ricercata, soppesata sentenza, imponendoci un’applicazione necessaria in modo da percepire ciò che di irreparabile, o di aggregante, di risolutivo, o di smembrante, sta avvenendo in sé e in noi […].
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Franca Alaimo su Case sepolte.
Difficile inserire (e certamente non ce ne dispiace) la scrittura di Case sepolte all’interno di un preciso genere letterario, oscillante com’è tra molti, e dunque sottratta ad ogni qualsivoglia definizione, e perciò ossimoricamente ambigua, e, per la sue stesse infinite strettoie, cosi ampia, così misteriosa, Né spazio, né tempo sorreggono l’impalcatura del dire: il primo essendo a tal punto spoglio e vuoto, da rendere impossibile trovarvi un qualsiasi riferimento a un dove geograficamente localizzabile. Gli oggetti che lo corredano, rarissimi, non appartengono alla dimensione quotidiana dove non hanno più funzione alcuna, se non quella simbolica, come, per esempio, l’inchiostro coincidente con l’operazione della scrittura la quale, però, più che confermare la presenza dell’io scrivente, sembra sottolinearne la condizione interiore dell’erranza, la nostalgia di qualcosa di definitivamente perduto[…] Anche il tempo manca di riferimenti, di ordine, di scansione cronologica: notti, giorni, tuoni, lampi si succedono come condizioni astrattamente eterne e universali, tanto da accadere perfino sotterra, tra i morti, che, di fatto, appaiono più veri degli stessi viventi. Essi, non più esseri in equilibrio angoscioso sulla soglia tra il reale inconoscibile e il mistero dell’oltre, abitano e sanno, infatti, l’invisibile, che per non farsi abbagliare si sotterra. È, insomma la morte, la condizione del definibile, del dicibile, in quanto vita conclusa, senza stupori o terrori. La vita, instabile nella sua inarrestabile mutevolezza, nel suo farsi e disfarsi e frangersi e svanire, impedisce di “pensare” e “nominare” le cose, trascina l’esistente da un addio all’altro senza pausa alcuna[…]Buona parte della scrittura di Pietro Romano è un susseguirsi ossessivo di domande alla ricerca di un impossibile incontro con sé stesso, che resta in una sorta di nonluogo e nontempo, tra l’atto del vivere morendo e del morire vivendo, istante dopo istante, annullando, perciò, la durata del gerundio, come dice in una sua riflessione, in preda ad un estraniamento esistenziale, che lo precipita nel vuoto, luogo per eccellenza ed eccedenza della poesia, che l’abita tra una parola e l’altra, nel bianco senza segni della pagina non violata. Tutti i volti, i conosciuti, gli sconosciuti, vi si imprimono come in uno specchio che li restituisce per un breve tempo quali immagini illusorie e poi li lascia andare, poiché uno solo è lo specchio veritiero, ma giace nelle profondità del nostro intimo abisso. Ecco perché nemmeno la poesia fa casa: […] È solo un fuoco che ci cresce in bocca, e nel quale ci maceriamo, un rito offerto sul tavolo del sacrificio. Le case degli uomini sono quelle sepolte nel buio della terra, nel buio della nostra psiche. Questa tragica visione dell’esistenza trova i suoi nodi sonori in parole come “crepe”, “ferite”, “cenere”, “mancanza”, “assenza” e, a volte, in un affastellato susseguirsi di nomi e di verbi, che come specchi copiano e moltiplicano il disagio dell’autore, urticando la sensibilità del lettore, quasi costringendolo ad una sfibrante indagine di qualche via d’uscita, che in qualche modo viene indicata attraverso deboli segnali, quali: una candela accesa, il canto flebile dell’infanzia, il bianco di una rosa, e infine la consapevolezza di esserci, anche senza trovare risposte: vita alla vita a prezzo della vita per dire: “sento anch’io, anch’io splendo”. Si possono trovare molte tracce di altri autori nella poesia di Pietro Romano, che, nonostante la sua giovinezza, possiede un nutrito bagaglio di letture, ma soprattutto si ascoltano echeggiare tra un verso e l’altro le voci di due poeti grandissimi, come il Rilke dei Quaderni di Malte, tessuto intorno ad un mondo interiore sempre sull’orlo del crollo definitivo, o la Pizarnik la cui poesia vibra, secondo Enrique Molina, tra due coordinate essenziali: l’infanzia e la morte “ugualmente abbaglianti entrambe, ugualmente piene di vertigini”. Anche se, aldilà dell’autorevolezza di questi modelli, a me sembra più opportuno parlare di consonanze del sentire, di posture mentali assai simili, testimoni di una cartografia misteriosa dove rintracciare lo stesso viso ferito del mondo.
PIETRO ROMANO E I POETI “INFLUENCERS “
Nutro un amore incondizionato per la poesia di Rilke, il suo canto è abissale. Ogni volta scendervi è fare esperienza dei possibili che dimorano nella parola, sempre valicando da un nesso all’altro. È fare esperienza del sacro. E poi, Pizarnik, la cui parola si staglia al confine tra il visibile e l’invisibile. Penna e Benedetti, per me due riferimenti cui guardare costantemente per quel che concerne la poesia italiana.
In dono a Pietro Romano e ai lettori di larosainpiù, da Silenzio e Tempesta. Poesie d’amore di Rainer Maria Rilke, Marco Saya Edizioni 2019, traduzioni di Raffaela Fazio.
La sera è il mio libro. Un vermiglio
bagliore di damasco la riveste;
ne disserro i dorati fermagli
senza fretta, con mani fresche.
Leggo la prima pagina scoprendo,
lieto, il suo tono familiare,
più sottovoce leggo la seconda,
la terza l’inizio già a sognare.
Pietro Romano (Palermo 1994) è laureato in Italianistica con una tesi sulla produzione poetica di Nino De Vita presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Ha pubblicato due raccolte poetiche, dal titolo Il sentimento dell’esserci (Rupe Mutevole, 2015) e Fra mani rifiutate (I Quaderni del Bardo, 2018). Collabora con varie riviste, cartacee e online. I suoi versi sono stati tradotti in russo («Мой дом — до молчанья», La mia casa è prima del silenzio, Free Poetry, 2019, con prefazione e traduzione di Olga Logoch, collana di poesia italiana a cura di Paolo Galvagni, traduzione di Fra mani rifiutate), greco, catalano e spagnolo, e inseriti nell’antologia Le parole a quest’ora (Free Poetry, 2019, a cura di Paolo Galvagni). Case sepolte ( I Quaderni del Bardo, 2020, con prefazione di Gian Ruggero Manzoni, postfazione di Franca Alaimo e disegni di Angela Catucci) è il suo nuovo lavoro.