Un reale sdrucito e scomposto si fa largo nella poesia di Smarginature, quasi vagliare un criterio di conoscibilità significasse anzitutto sezionare chirurgicamente l’esperienza e addentrarsi quindi nei punti di sutura e di fusione che la caratterizzano. Il verso figura, dunque, come immagine simbolo di questa operazione orientata a valicare i limiti cognitivi per tentare un approdo di senso e cedere la parola al rimosso:
Quanti cedimenti alla banda,
l’uno che vuole essere parte
ma non gregario, l’infelice
nel suo diaframma di senso,
il gesto che tradisce l’esilio.
Cosa caverai dal nucleo primo?
Qualcuno sta cercando i suoi,
il non ritorno, il bacio sulla fronte
del padre, il mondo-schermo,
questo tempo tutto da schiarire.
I modi della rappresentazione poetica risultano dall’assemblaggio di tasselli ciascuno esistenti di per sé nella percezione di un io che li ricuce per raccoglierli entro un unico orizzonte visivo:
Un’ombra si staglia sul muro,
una faccia di donna. Ricompongo i segni.
Le voci fremono nelle case e nei vichi
mentre i gatti scivolano sotto le auto.
Nella notte la presenza è percezione.
Un vecchio è al buio con la tv accesa,
guarda la strada, mi incrocia, fissa
la madonna luminosa ai piedi della notte.
Sono dappertutto gli occhi dei perduti.
L’intento implicito sembra essere quello del travalicamento dalla soglia al sema inteso come elemento-origine, nucleo primo. Tuttavia, questa costante opera di ricucitura non è tale da consentire il ritorno delle cose al loro stato originario. Una sola disgregazione le attraversa, in modo irreversibile, al punto che l’oblio in cui dovrebbero essere cadute risulta non definitivo e mescola i propri tratti «premitici» alle sembianze del presente:
La pelle si sgrana e l’acqua non purifica,
non ripara, non è più ritorno vitale:
corpo lattiginoso reclama muto.
È sempre stata questa la fronte,
le mani, questo il neo sul collo.
Non potrei giurarlo.
L’oblio non è definitivo]
spuntano bestie
di un tempo premitico
sulle facce dei pendolari.
L’indagine di Esposito compone le trame di un attraversamento che può risultare a tratti cerebrale, ma che si realizza anzitutto nella constatazione che anche la propria e l’altrui soggettività sono il frutto di un processo disgregativo irreversibile e tale da produrre nuovi tagli, ulteriori riduzioni del reale:
I.
Non avevamo altra scelta:
chiudere la porta, cambiare
case e serrature; tutto recava il segno
del necessario e del provvisorio.
“Hai reso l’abitudine precaria”.
Le accuse si alternavano a follie
d’attaccamento: “sei tutto quello che ho
e sei la ragione per cui ho perso il resto”.
Non solo un’alleanza sanguigna
o un gioco di posizione,
noi ci siamo congiunte nel distacco
di un padre; e tu ne avevi coscienza:
“vedrai che saremo meno sole, da sole”.
Tutto si separa nella giusta direzione.
II.
È forse un caso se siamo ancora vive
mentre l’uomo setacciava ogni mossa,
è un caso – come il rombo della creazione,
come il padre che non abbiamo scelto,
il marito che ti è capitato. Fuori esplodeva
il sessantotto, ma tu eri ancora invischiata
nella legge della progenie.
Adesso hai scelto la tua casa, il posto
sottratto.
Hai rinnegato il nome, ti sei fatta
libera.
Adesso – siamo entrambe figlie.
Il nostro grembo è lo scudo di ogni tempo,
ma di quel tempo, sulla pelle, la tua,
sento ancora il profumo di quando ero bambina.
Di fronte alla disgregazione, la poeta distende sul telaio delle parole fili che possano congiungere all’altro risignificato come presenza di senso:
Marta, la tua è una forma di schizofrenia,
una distorsione della mente: tu
vuoi essere immensa.
Non prendere d’esempio il cielo
se non vuoi piangere di tutto.
Sarai la feritoia da cui scocca la luce.
In Marta si sintetizza l’aspirazione all’immenso che pervade il canto di Esposito: l’io lirico, però, cosciente del fatto che l’unico modo per esprimere la luce consiste nell’accettazione di esserne un singolo frammento o canale, non può che invitare a «non prendere d’esempio il cielo», giacché quest’ultimo immagine dell’indistinto, dell’indifferenziato. E infatti, solo impegnandosi in direzione dell’autentico insito nella frammentarietà costitutiva di ciò che si è, si può scorgere una possibilità di espressione, seppure ciò che è irrisolto sia destinato a restare tale:
Nell’intermittenza
l’assillo si rinnova
e ciò che è irrisolto resta tale.
Tutto gira intorno ad un grande
paradosso: “anche l’autentico richiede fatica”
e allora non farmi da specchio, non lo fare.
Non c’è controllo che il corpo non preceda:
“la voce non copre la mano che trema”.
I lembi non possono essere separati: è la realtà che si presenta in frammenti e l’intero non può sussistere nella crepa:
In quale pozzo fu benedetto, gli chiedo
sfiorando con paura l’assenza del mito,
il non approdo in cui si inarcò il vagito.
Per le lunghe scale è l’eco la dimora
dell’orco, e più su la campana cinerina
dell’infanzia, l’odore acre del limone –
incredibile credersi salvi.
Tu respingi le due braccia tese
nello sforzo di separare i lembi.
Tu vuoi l’intero nella crepa.
Attraverso l’immagine delle smarginature, Esposito consegna al lettore la rappresentazione di una realtà che appare vagliabile solo se colta nella sua frammentarietà costitutiva.