Poeta, saggista, scrittore, Lucio Zinna è stato, e continua ad essere malgrado abbia superato le ottanta primavere, uno dei maggiori protagonisti della vita culturale in Sicilia. Sebbene non abbia mai voluto lasciare l’Isola, Zinna ha una statura intellettuale tale da varcare i confini siciliani ed è conosciuto e apprezzato negli ambienti letterari di maggiore rilievo. Da ultimo ha dato alle stampe per la Fondazione Thule (delle edizioni Thule ricorre quest’anno l’anniversario dei cinquant’anni della nascita) la raccolta di poesie “Le ore salvate”. Una silloge che si segnala per la scrittura sapiente e per l’intensità lirica e che offre tanti stimolanti motivi di riflessione oggetto dell’intervista che l’autore ha accettato di rilasciare per questa rivista.
“A qualcosa serve invecchiare”. Con questo verso si conclude la poesia “A incalcolabili lune” che peraltro dà il titolo all’ultima sezione della silloge. Si può leggere “Le ore salvate” come un’incursione nel tempo passato con, da un lato, una sorta di redde rationem della propria esistenza – serena ma inevitabilmente venata di malinconia seppure contenuta e temperata da quell’ironia tratto saliente un po’ di tutta la sua produzione poetica – e, dall’altro, la consapevolezza di alcune conquiste della senilità?
R. “Le ore salvate” possono anche considerarsi una sorta di consuntivo esistenziale, atipico e a tessere di mosaico. La raccolta non è una celebrazione dell’età senile: ne salva il salvabile. Francamente, la vecchiaia non è una bella cosa. Non lo è vedersi restringere l’orizzonte, assistere al proprio degrado fisico. Un mio amico scomparso, il narratore Luigi Maniscalco Basile, mi disse qualche decennio fa: ”La vecchiaia non possiamo eliminarla, ma abbiamo il dovere di contrastarla.” Questa frase mi torna in mente, di tanto in tanto. Contrastare la vecchiaia è opera resistenziale, poiché può vincersi qualche battaglia ma la guerra è perduta in partenza. Non resta che cogliere, dell’invecchiare, i vantaggi possibili: passare in rassegna la propria esistenza; valutarla in maniera prismatica (anche sulla base di una non disutile «logica retrospettiva», come amo dire: si, proprio il cosiddetto “senno di poi”); fare i conti con se stessi, districando la matassa di rimpianti e rimorsi, a prescindere dal peculio delle realizzazioni; calibrare il tempo che resta con oculatezza. Non è poco.
Tra le conquiste della senilità, qual è la più importante? È forse la fede, che pare ispirare soprattutto i versi della sezione “A incalcolabili lune”?
R. La fede, certo. Imprevedibilmente. Ma non solo.
Il suo registro lessicale ha nel plurilinguismo uno dei tratti più evidenti, non solo per le ricorrenti espressioni in latino, in francese e nel dialetto siciliano, ma anche per la commistione dell’italiano colto e della lingua parlata. Quanto incide il plurilinguismo sul suo dire poetico?
R. Non sono un cultore del plurilinguismo. Amo inserire nei versi dei lemmi da codici allotri, ma solo per calibrare al meglio un dato percorso o per un effetto musicale o altro, mai esagerando o per ostentazione. Rifuggo dal ‘poetichese’. È vero, mi servo di un mélange di italiano colto e lingua parlata: ciò mi è connaturato e mi piace che filtri nella mia poesia, come un suo tratto distintivo.
La sua è una poesia colta, frutto di una sapiente elaborazione, e però nello stesso tempo è illuminata da versi che, per la loro limpidezza, appaiono come folgorazioni refrattarie a mediazioni “culturali”. Quanta “fatica” comporta scrivere poesie, come quelle de “Le ore salvate”, dettate da intuizioni dell’anima accompagnate da riflessioni cerebrali?
R. La poesia richiede dedizione, ma non è un peso. Non lo è nemmeno il “labor limae”: viene “dopo” l’illuminazione iniziale, l’input originario, quello che Paul Valéry chiamava «nucleo proliferante»; viene “dopo” l’elaborazione, la ‘stesura”, ma fa parte del fatto compositivo (che è, appunto, un ‘insieme’, anche etimologicamente: “cum-ponere”), è intrinseco all’atto di poesia. La poesia non è stata per me né un “lavoro” né un “hobby”, bensì, fin dagli anni adolescenziali, una scelta di vita. E la vita ho osservato con l’ottica della poesia. Non vado in cerca di essa: non “cerco l’ispirazione”, come si suol dire. Ho avuto modo di accennare in altra occasione che è lei che viene da me, se vuole e quando vuole. Sa dove trovarmi e la accolgo come una vecchia amica e mi dedico a lei. Ci sono periodi, anche lunghi, in cui stiamo per i fatti nostri e va bene lo stesso.
“E chi – come l’agricola soale – / coltiva sogni raccoglie poesia / alto fusto della speranza”, si legge in “Guglielmo della ‘sognazione” dedicata al poeta palermitano Guglielmo Peralta. Altri versi (“I poeti vanno”) alludono alla “forza” dei poeti. Altri ancora (“Cognizione della parola”) invitano a diffidare del suono a volte ingannevole delle parole, il pane quotidiano dei poeti. Se “Le ore salvate” può considerarsi un interrogarsi sul suo passato e sul suo presente, che valore ha avuto e ha la poesia nella sua esistenza?
R. Un valore incommensurabile. Mi ha aiutato a ‘tirare avanti’. Io amo la vita, ma so anche che «vivere è gran fatica», per dirla con Leon Battista Alberti: proprio lui, il pensatore dell’Umanesimo-Rinascimento, dell’«homo faber», che richiamo in una poesia della raccolta, che pare fatta apposta per far storcere il naso, ma non è così. Il ‘far poesia’ mi ha alleviato la gestione della quotidianità, è stato la lente attraverso cui ho guardato l’esistenza: per quella che è, al di là delle opposte ottiche del pessimismo e dell’ottimismo, che cerco di tenere parimenti a distanza: il pessimismo, in quanto pone ostacoli anche laddove non ci sono e l’ottimismo in quanto li toglie anche laddove ci sono. La poesia mi ha indicato quella intermediazione realistica (sostrato della mia produzione poetica) che mi ha guidato, facendomi procedere – al meglio e possibilmente – con i piedi per terra, al contrario dello stupido stereotipo che vuole i poeti con la testa tra le nuvole. Quando i poeti guardano le nuvole smettono di camminare, semmai vedono in esse quel che altri non riescono a vedere.
Una poesia della sua raccolta (“Lungomare d’Aspra) si rivolge a Ignazio Buttitta, un poeta apparentemente estemporaneo e molto distante, come cifra stilistica, da lei. Che cosa vi ha uniti, malgrado la diversità (immagino) di temperamento?
R. Ignazio Buttitta è stato mio amico e uno dei miei primi estimatori, assieme a un altro grande poeta dialettale siciliano: Giuseppe Ganci Battaglia. Coi giovani poeti non era tenero: non li scoraggiava, ma non elargiva facili consensi se non scorgeva talento(nel qual caso era solito dire: “devi ancora studiare”).Quando ci siamo conosciuti, io ero un giovane poeta e lui un autore affermato e celebrato a livello internazionale. Mi trattò sempre, fin dall’inizio, con stima e considerazione e, per così dire, da pari a pari. Presto subentrò in noi il piacere, quando ci occorreva, di stare insieme, di scambiare opinioni e colloquiare liberamente. I nostri temperamenti erano diversi (ma fino a un certo punto), come era diversa la nostra poesia, a principiare dal codice linguistico. Io sono stato, da sempre, studioso del dialetto siciliano, ma non ho mai composto un verso in dialetto. Però c’erano fra noi non poche consonanze, nei nostri scritti e nel nostro modo di vedere le cose. E di intendere la poesia: l’attenzione alla forma (che lui apprezzava nei miei testi), ma anche la considerazione dell’importanza dei significati, in quel che allora si chiamava “il messaggio”, non solo e non necessariamente politico etc. Era un poeta popolare – o, per meglio dire, popolareggiante – e al popolo amava rivolgersi. Le sue recite in piazza erano memorabili. Poeta estemporaneo ma non troppo. Anche lui era attento alla forma. Tra le tante persone scomparse da me conosciute è una di quelle che mi è mancata di più.
Nella poesia “Strade” richiama la sua esperienza, negli anni Sessanta, del “Gruppo Beta” da lei fondato. Che cosa rimane delle neoavanguardie di quegli anni, a cominciare dal “Gruppo ‘63” al quale è stato vicino pur non aderendovi? Qual è stato il lascito di quella stagione così ricca di fervori e di idee innovative ma anche di contraddizioni di cui lei è stato in Sicilia uno dei principali protagonisti?
R. Le esperienze relative alle neoavanguardie degli anni ’60 a Palermo sono state importanti nella mia formazione, anche se poi me ne sono andato per i fatti miei. Credo che, a parte la storicizzazione del fenomeno, non resti molto del lavorìo di quegli anni, a parte una forte spinta a non consistere su schemi obsoleti e a tendere sempre a nuove soluzioni creative, come del resto è basilare nella ricerca letteraria e artistica. Svanito il principio (il mito, direi) di far rivoluzione in senso politico sconvolgendo il linguaggio. Il Gruppo Beta fu un fenomeno locale e giovanile, attivo e propulsivo a Palermo in quegli anni, oggi poco ricordato. Affermò alcuni aspetti in contrasto col Gruppo 63, quali, in tandem con la ricerca linguistica, il rifiuto, in poesia, a prescindere dai significati e la diffidenza nei riguardi dell’assolutizzazione del neoformalismo; disse anche cose che il Gruppo 63 non si sognò di dire, quale la ricerca di un neo-umanesimo, scientifico e onnicentrico etc. A volte ho l’impressione che, da quel periodo, siano trascorsi non decenni ma secoli.
Antonino Cangemi
LUCIO ZINNA. Nato a Mazara del Vallo (Trapani) nel 1938, si è trasferito giovanissimo a Palermo per seguire studi di filosofia e pedagogia nell’Università, dove si è laureato. Nel capoluogo dell’isola ha operato attivamente fino al 2007, anno in cui ha eletto Bagheria a suo buen retiro. Ha pubblicato: di poesia: Il filobus dei giorni (Palermo 1964), Un rapido celiare (Palermo 1974), Sàgana (Palermo 1976), Abbandonare Troia (Forlì 1986), Bonsai (Palermo 1989), La casarca (Palermo 1992), Il verso di vivere (Marina di Minturno 1994), La porcellana più fine (Caltanissetta 2002), Poesie a mezz’aria (Falloppio 2009), Stramenia (con disegni di Eliana Petrizzi, Salerno 2010). Di narrativa: Antimonium 14 (Palermo 1967); Come un sogno incredibile / Il caso Nievo (Pisa 1980, Marina di Minturno 2006), Il ponte dell’ammiraglio (Palermo 1986), Trittico Clandestino (Siracusa 1991); Un’estate a Ballarò e altri racconti (Roma 2011). Come saggista ha pubblicato il volume La parola e l’isola. Opere e figure del Novecento letterario siciliano (Palermo 2007) e Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito (Torino 2019); ha curato la sezione Sicilia (testo critico e antologia) in “Dialect Poetry of Southern Italy”, a cura di Luigi Bonaffini (New York, 1997). Ne “I quaderni di Arenaria” sono apparsi: Nietzsche e Kafka (2001), Due letture dantesche (2002), Gli equilibri della poesia (2003), Perbenismo e trasgressione nel ‘Pinocchio’ di Collodi (2008), Stagioni della vita e metafore della ‘soglia’ nel realismo radicale di Leopardi (2010). Cura in rete la collana di volumi collettanei e monografici “I quaderni di Arenaria”. Suoi testi sono stati tradotti in inglese, spagnolo, francese, portoghese, greco, romeno, serbo-croato, macedone.