Se dovessi scegliere una poesia della silloge “Elogi” di Franca Alaimo, che meglio riveli la personalità poetica dell’Autrice, ne sceglierei due, anzi tre, perché sono almeno quattro quelle che meglio si presterebbero allo scopo, delle cinque che mi sono prefisso.
Questo trambusto di numeri (mi perdonerà Franca?) è la conseguenza di una difficoltà oggettiva di scelta, per l’elevato numero di testi che raggiungono il vertice dell’Alta Poesia, suscitando in me sentimenti opposti di ammirazione e di invidia, di quelli che creano vere e proprie crisi d’identità.
C’è quasi intatta in Franca Alaimo quell’indole poetica che tutti gli uomini posseggono alla nascita e che si rivela per tutta l’infanzia con quella festa di parole, neologismi, per la predilezione della musicalità nella cadenza ritmica della parola, per lo stupore con cui i bambini scoprono il mondo che tanto ricorda “l’urto del prodigioso” che la poesia sa dare.
Indole che purtroppo si perde con l’andare avanti dell’età, ma quando, come nel caso di Franca, conservata e potenziata con lo studio, la lettura dei grandi poeti, fino a farsi consapevolezza di sé e della realtà che ci circonda, è da quella stessa indole che viene fuori il Poeta: così in” Paure infantili”; in “Alberi”; in” Sola a quattro anni”; in” Infanzia”, ecc..
Non c’è maggior pienezza del Niente di Franca Alaimo, perché pieno del disatteso, del troppo presto perduto, dell’incompiuto, del frainteso, del non veduto, perché pieno di tutte le piccole cose di tanta gozzaniana memoria, ma tutto doloroso o rassegnato senza… “più nessuna//nostalgia del paradiso” (Notti e giorni).
E l’effimero viene elogiato non certo per compiacimento di un valore, ma per la sua caducità, per quel senso di presenza-assenza, perché solidale, senza un riferimento spaziale o temporale, ma di cose trovate lì, perché messe lì dalla” divina sapienza”, compagne di un viaggio parallelo, nominate per patto linguistico convenzionale che nulla dicono della vera loro essenza vitale, il tutto in una disillusione irremovibile di chi come “noi che l’infinito vogliamo”, “rimasti al di qua del tutto” (Infanzia), da dove possibili varchi nulla hanno della salvezza montaliana.
Così come poco, se non nulla, ha in comune con il sonetto “Vocali” di A. Rimbaud, “L’elogio delle vocali” che, di Franca Alaimo, piuttosto ci dà, in modo prezioso, la possibilità di vedere da un lato una qualità o prerogativa della sua poesia che consiste in un particolare rapporto presenza-assenza; dall’altro il senso nascosto in quella sua trasfigurazione allegorica che riguarda la parola in generale e quella poetica in particolare, quando entrambe sono chiamate a rappresentare il mondo.
Da un lato infatti assistiamo all’effetto paradossale di vuoti esistenziali ottenuti mentre realisticamente viene espressa un’effettiva visione, intesa come vera vista dell’oggetto, oppure di un esistere perché si è altro o si diviene altro, fino addirittura all’inesistenza in quel modo che ci appare come reale: nella poesia “Vento” dove c’è una minuta descrizione realistica di paesaggio e colori “Tutto è così transplendente //che sembra un sogno”; oppure ”essere vento per il respiro della canna//essere canna per il soffio del vento” (Canne e vento); e se “il niente è una parola larga” il vuoto di vitalità che può rappresentare si stracolma di vita non appena si presenta la morte o addirittura il Paradiso, “Il bello della morte è essere vissuti” e la morte sembra essere presente dove intanto non c’è, perché c’è intorno la vita di tante cose “Ma non le vedo” dice Franca in “La morte del sole” o le mancheranno (Ma com’è il Paradiso?).
Dall’altro lato, “L’elogio delle vocali” si pone come una trasfigurazione allegorica di quanto sia insufficiente, con quella “e” mancante, la forza nominativa anche della parola poetica che tenta con le sue figuralità allitterative, onomatopeiche, mensurali, timbriche, transfrastiche e metaforiche, di varcare il guado, sottilissimo ma incolmabile, tra ciò che possiamo dire e ciò che vorremmo dire.
C’è in “Elogi” una visione del mondo come un senso di estraneità, da osservatrice affascinata, innamorata, stupefatta finanche, ma senza illusioni, senza rimorsi, ma con la vanità del tutto “gravidi di silenzi e sogni oscuri//senza alcuna coerenza” (Metamorfosi dei morti).
Nell’”Elogio del tempo”, è l’infanzia che domina, rivisitata sulle ali di una Poesia sublime, capace di stemperare il disagio, quasi l’inappartenenza, come entità celeste, a questi luoghi, a questo tempo, in una atmosfera sognante, rarefatta dove la parola è spinta fino all’orlo estremo della sua transfrasticità, fino al neologismo (dindodavano in “Estasi”) e dove la figura della madre è sublimata della sua fisicità, tutta residuata nel tocco appena d’un ultimo contatto.
26 aprile 1948, le nove (Una vecchia foto). Una data certo importante nella vita di Franca, forse fatidica per quella figlia, madre, moglie abbandonata e disillusa ma ancora in attesa, fatidica per quel dolore che finirà per incarnirsi nel tenero della purezza di un’anima incantata, fino a diventare fonte battesimale di ogni nuova esistenza tentata, quasi volta per volta un riannidarsi in un utero materno per una rinascita di ricongiungimento a un sé incredulo e smarrito, incapace di aderire in senso vitale e vivificante, tutto nato intorno di purezza, come la sua infanzia perduta, implorata.
E l’amore? Sempre contaminato, mai di quella purezza fragile che richiede ogni giorno le stesse cure dei fiori, perché mantengano il loro profumo, piccoli segni delle mani, degli occhi, piccoli suoni di monosillabi; costretto com’è a districarsi tra madri, figlie, mogli, amanti, donne incompiute ma per troppo amore, “il futuro per noi sarà un ricordo” (Dopo tanto silenzio), ancora quella presenza-assenza lungo il filo di una memoria che non sarà mai una mera somma di ricordi ma una rumorosa fucina di pezzi di vita da ricucire. “o memoria spinosa!” (Nostalgie).
In un rapporto forte ma ambiguo che al nuovo giorno chiede un bacio “che sa di annunciazioni” ma anche ”Dissolvi tutte le morti brevi//che, ogni notte, mi abbracciarono//nel sonno” (Luce del mattino), nell’attesa “che un angelo radioso possa entrare//e indurmi ancora in tentazione” (Inducimi in tentazione).
Orfanità, brefotrofio, coma, stupro parole terribili ma che in Franca Alaimo sono sinonimi di morsi crudeli che hanno strappato carne e anima al candore della sua infanzia, sempre implorata come “la mamma di prima”, nelle forme costanti di una natura più pascoliana che leopardiana, nei neologismi (dindodavano, ondavano, immacola) di quel disperato soggettivismo autobiografico, a volte quasi diaristico, di un dolore incarnito, tenace e recidivo.

 

Tino Traina