Sangue corrotto

In principio fu il sangue corrotto
dall’alcol di A. – mio fratello. Siate
fecondi e moltiplicatevi, la
maledizione. Mamma e la paura:
«Ho in me i geni della violenza».
Si pensa come rea mai confessa.


Tutto passa

Passo al setaccio i puntuali dolori
filtrandone la consistenza appiccicosa,
aderenza antropomorfa del loro agire.
Ho guardato al di sotto del ponte
più volte di quante ne ho detto.
E tu mi dici: «Non piangere,
nella vita tutto passa».


Centrometrista

Evitare la felicità come
fosse barriera da centometrista.
Lacrime attaccate alla voce.
Non sparare se hai cattiva mira.


Oppressore

Lo dico al passato?
O al domani
sempre uguale alla mia pena,
che l’entusiasmo facile
è un tentativo fallito,
quando l’oppressore si diletta.
Vivo alla periferia dei pensieri altrui.
Lui dice che faccio la vittima.
La dottoressa dice che lo sono.
Ho dimenticato la parola io.


Frullato

M. inizia sempre come da copione:
sbucciando. Poco dopo giunge il tempo
del taglio. A cubetti, come suggerito.
Tutti consigliano di versare il latte dopo,
ma lui lo fa prima. Per addolcire.
Versa tutto nel contenitore e frulla
fino a ottenere un composto liscio
e omogeneo. Della mia disperazione.
Servita al suo baccanale.


Clandestino

M. dice di non avermi mai tradita.
M. ha creato un account falso
per non sopportare il peso della colpa.
Io ho creato un account falso
per stanare la colpa di M.
Ora, ci odiamo clandestinamente.


Offerta

Degli anni in cui si disegna
la primavera dell’esistenza
rimane ancora
la mia mano cucchiaio:
offerta
senza ricevuta.


Macerie

I rifiuti ingombranti, post-demolizione.
Raccolta – peso fuori misura.
Un continuo tentativo di
smaltire le macerie.
Sopravvivo.


Franca Alaimo, da prefazione a “Sangue corrotto”, Interno Libri Edizioni, 2021.

La divisione della silloge Sangue corrotto in tre sezioni, direi quasi “atti”, con finale tragico, potrebbe rimandare a un plot tipicamente teatrale in cui l’autrice racconta in un monologo quasi ininterrotto (le battute degli altri “attori” vengono citate a memoria) un dramma esistenziale, che, prendendo le mosse da materiali autobiografici, intende mettere in scena una molteplicità di esistenze femminili segnate da meccanismi psicologici spesso irreparabili, vere e proprie trappole borghesi nell’educazione impartita al “gentil sesso”.
Il titolo della prima sezione “Origine”, ubbidendo ad una prassi comune in ambito psicoanalitico, cerca l’origine del disagio in un evento accaduto nell’infanzia: in questo caso, la morte di una sorellina di appena quattro anni ed il conseguente trauma del padre che si è sempre creduto colpevole di non averla protetta abbastanza. La sopravvissuta dice: «Sono l’altra figlia di un padre / orfano: unica sedia in uno spazio angusto», mettendo a fuoco una desolata percezione di superfluità […].

Il tema della solitudine della Parola, tradotto in tante enunciazioni sussultanti, viene evidenziato soprattutto nella seconda sezione “Crepa”, titolo che enfatizza con grande suggestione evocativa (e sonora e visiva) la distanza fra un “io” e un “tu”, che non si raggiungono mai, nemmeno nello spazio condiviso del letto: «Potrai contare le mie lacrime / posate sul cuscino, / che hai preso ad abbracciare ora: / la posa che evita la carne», con un’implicazione sessuale, che non è certamente secondaria; ma che casomai richiama quella centralità del corpo presente nella poesia sia della Sexton che della Plath.

La terza sezione, “Voragine”, si conclude con un testo in cui l’io narrante inscena il proprio suicidio: «Precipitare. Tagliare il vuoto / a braccia tese, il sogno reale». Ormai la difficoltà comunicativa si è tramutata in un sentimento di totale alienazione: «Dentro le pareti, gli oggetti che non mi / appartengono. Non so da dove vengano». Non senza motivo il lemma “voragini” materializza un vuoto abissale in cui fatalmente si desidera precipitare per confondersi con il nulla. Un cupio dissolvi che la voce narrante ha preparato con grande abilità, oscurando di testo in testo il lessico sia nel suono che nei significati in un crescendo angosciante che stringe il lettore in una morsa inesorabile […].
Non è una coincidenza casuale, se già nella prima sezione l’io lirico aveva affermato che il padre si accusava, come si è detto, della morte della figlia, credendo di essere Dio «che di vita e morte decide». Inoltre, il condizionamento religioso, che si riflette nell’uso di certi termini ed espressioni, come «croce», «crocifisso», «misericordia», «perdono», «martirio», «ho già perdonato / fino a settanta volte sette», sta certamente alla base del conflitto padre-figlia, se nel dio-padre si vede la minaccia di un maschilismo severo, giudicante, repressivo, senza gioia. Ne consegue, come necessità compensativa, in quante si possono specchiare nei versi della Buonomo un’illimitata fame d’amore. Non vi si sottrae nemmeno l’autrice che, nella pagina dedicata ai ringraziamenti, si allontana da ogni fredda formula, sottolineando l’importanza della presenza amorevole di molte amicizie e confermando in questo modo il valore emozionale della propria scrittura, che ha innanzitutto il compito di scacciare il dubbio di non esistere affatto in quanto donna, di essere «un’orma che ti appare niente». Significativamente l’ultimo grazie è rivolto alla vita: «Infine, grazie alla vita, che continua ancora a rimanermi aggrappata addosso, nonostante i miei respingimenti».