«Attorno a questo mio corpo /stretto in mille schegge, io / corro vendemmiando, sibilando / come il vento d’estate, che / si nasconde». Così diceva Amelia Rosselli1, poetessa dalle forme rutilanti e sperimentali, che teorizzava la metrica come unico contenitore formale, disciplinato di un potenziale psichico deflagrante. Tutto questo riverbera, se pur più pacatamente, in Lucetta Frisa, le cui liriche sono state recentemente raccolte in una ricca antologia (1970 – 2014) da puntoacapo Editrice (collana AltreScritture, 2016).
La prima epifania cui si assiste, leggendo Frisa, è quella di una tensione mai ricomposta tra interminati spazi interiori – che si dilatano nella notte, nel sogno, nello smarrimento di fronte a certe assolutezze del creato – e un quotidiano subire le cose, ostinate in fisicità e mutismo, avare di significato.
Tra questi due poli dialettici, signora è la scrittura, che si candida a «radice» e «punto solare con braccia senza tempo»: il cammino accidentato del «tarlato scrivano» che si «annoda in calligrafie» nel «bianco messaggio irreversibile».
L’appello all’intensità, in Lucetta, è costante, e il poetare è «accende[re] le corrispondenze in eloquente calore», laddove il foglio sarà il luogo dove ritrovare ritmo e misura, dopo aver versato il materiale incandescente che, dalle profondità dell’anima, insorge.
La creatura senziente è «accerchiata» da una materialità meccanica e mutila di trascendenza che, nell’impatto, rende perduti e spenti, corpi «senza infinito». In più, vi è una patente mancata compenetrabilità tra gli individui, incapaci di cogliersi e raggiungersi emotivamente, essendo le interdette intimità, le distanze costitutive non colmabili con parole: tali dispositivi verbali sono strumenti inadeguati a negoziare il mistero.
Questa dimensione insufficiente delle misure percettive o espressive finite è un tema doloroso e ricorrente per chi, come il poeta, traccia percorsi sul limen tra universi onirici e paesaggi di concretezza: le realtà sottilissime e radianti ch’egli visita in volo hanno altri parametri e consistenze, difficilmente traslabili in codici semantici diurni: «Calma, nella notte, non invento nulla / neppure una parola logica – scrivo / respirando, tocco l’alfabeto infantile / che inavvertitamente si è fatto adulto».
Qui l’immedicabile afflizione del non poter riportare come ricchezza conquistata, definitivo bagaglio, il travagliato vissuto dell’altrove: «Non ho imparato nulla di ciò che volevo sapere / qualcosa dico ma dimentico o ricordo / fuori di me, senza sforzo. / Il dolore c’è stato prima».
Il dualismo giorno-notte è metafora continua dell’analogo binomio tra massa corporea calata nel mondo e spirito notturno che volteggia in libertà di pensiero e scrittura: fluttuante in territori nebulosamente infantili, in aree franche dagli ottusi, adulti alfabeti.
Tali territori celesti o sottomarini, nel grigioperla del sogno o dell’estasi creativa, sono tempestati di rivelazioni ardenti, smeraldi e diaspri tra le fiamme: «I nostri sensi conoscono la notte / ferita inganno estasi follia». Sponda in cui ramifica l’amoroso desiderio, riluce l’intollerabile bellezza, nella leggiadria crudele del suo dissipare, e grida il rimpianto di primigenie simbiosi femminili, esperite nella culla del grembo materno; qui la radice sacra del femminile, che trema nel ricordo, disciolto nella propria nuca d’animale antico: «Ti raggiungerò nel tuo nulla / il mio e il tuo di nuovo insieme / ma questa volta nel buio […] Dentro di te ho saputo / lo splendore di non capire e di essere / la gioia del respiro e del sonno».
Ma le incursioni nei giardini di miraggio e trascendenza non reggono l’urto dell’alba: «paese dei sogni infantili / dei sonni infernali» dove si animano «ombre mortali dopo mezzogiorno» e la tentazione è quella di posare, come cosa tralasciata, rinchiusa nel recinto del proprio grido, adesa alla dimenticanza di sé: «Qualcuno è morto / non so se fuori o dentro la stanza. / Scrivo / il suo urlo perfetto»; e ancora: «Chiudimi gli occhi – dirò – come si chiude una porta. Chiudimi col tuo soffio»: un appello al proprio senhal, che è eterea, evanescente altra sé, traslata dalla poesia trobadorica.
Così accade spesso in Frisa, dove l’individualità non è mai intatta e sigillata, ma piuttosto scissa e poliedrica, che il soggetto richiami al suo fianco, come presenza tutelare o dialettica, L’altra: entità squisitamente emotiva, spirito-guida, sede del baricentro creativo, del magistero poetico: «Riportami dove sono nata / dove mi diedero consonanti terrose e dure / come ossa impacciate / e vocali vuote aperte nella gola / e mi dissero: “Invéntati l’andatura e il volo”. / Mi diedero occhi e piedi / polmoni e penna / velati di trucchi / per fingermi viva».
In questo continuo ondeggiare tra altezze percettive, volo ideativo, spiritualità scoscese e l’opposto lido di esistenza minimale, attigua al cupio dissolvi, si inserisce la parola che è emissione antalgica, medicante, se pur, in essenza, affabulatoria e fallace; rimane lo sgomento di fronte all’arena del tangibile, e al cospetto di certe identità silenti che, nei reami fisici, ci contengono in essere vivente delimitato, scolpito, caduco: «Ciò che qui non appare è anche altrove materia / materia la luce che come notte scompare / e il volo radente del nero lunare / prende nella sua scia e si resta muti / sapendo che sottoterra siamo nati / e in mezzo alle parole non c’è fiore».
Rintocca, con cadenza reiterata, la nostalgia di una propria esiguità, che sia tregua animale, sintonica con il teatro naturale, in assopita coscienza, ma in accesa e collimante corporeità: «Voglio entrare nello sguardo degli animali / voglio la tana e il monastero / e stare tutta dentro il mio corpo e non sentirlo più».
La trascendenza sussurra e indica, ma Frisa sembra non volerle dare accesso: «Dopo celebrazioni e sepolture / celebrazioni e sepolture volendo / qualcosa d’altro ancora e chiamando gli atomi dentro di noi / sole e luna padre e madre […] dimmi / in quale fibra nervosa siamo / adesso in questo momento/ il creato è un attimo di concentrazione / poi ho voltato pagina»; ancora, Rosselli è madrina e compagna: «Ben fortificata alla pioggia, ben sommessa / al dolore, ben recapitata fra i tanti filtri / delle esperienze – sapere che la luce è tua madre, / e il sole è quasi tuo padre, e le membra tue / tuoi figli»2.
Il sacro cinge d’assedio, senza manifestarsi in rivelazioni pacificanti; ma è nel discendere alle matrici profonde del proprio essere creatura, e al puntiforme – reiterato nell’istante – generarsi della vita, è in questi recessi lucenti che sembra franare la resistenza, e scivolare, l’incredulità, fino a tenui, inconsce devozioni: al di fuori di qualsiasi compendio dottrinale, il sacro è attitudine silenziosa: «Forse la compassione è la lievità raggiunta l’Eden / Le stanze di cinabro / se quando il dolore è cielo la palpebra lo raccoglie / tutto allora / io ti stringo le mani / e mi basta».
La poesia è porta d’accesso principe a certe spirituali aperture, perché istruisce al sottile, a quelle stentate, mai raggiunte restituzioni, che si nutrono di espansioni dell’attimo, d’intatti stupori. La carezza ad esempio, tra tutte le fenomenologie, è cosa minuta e immane: elegge, delimita l’amato, gli riconosce unicità: «Ci siamo detti / non moriremo / fino a quando ci faremo carezze / ci chiameremo / per nome»; e questo amore umano ha già tutta una sua luce di grazia: «Noi quando nel buio / di una stanza o nel chiaro inebriante di una spiaggia / qualcosa ci attraversa».
Il poeta è privilegiato nel sentire, ma non è lieve il saldo: egli è spesso tormentato in un sé molteplice, in cui l’alterità infligge percezioni aumentate, posizioni radicali, prospettive ripidissime, estranee al diagramma del consueto: «Così restano voci sottili / nel cielo notturno dei pavimenti / restano segni sulla pelle / tremiti improvvisi dappertutto / anche d’estate / eccessi / come colpe di qualcosa / e piccoli sussurri nelle parole».
In questi fremiti, l’unica guida è un’autenticità senza computo, l’esser risoluti in essenza: «E a chi non lo sa ancora / glielo dirà lo stesso / dirà di essere crudeli/ o dolcissimi / dirà / scegliete una volta per tutte / dove stare»; che può significare un farsi poco, un farsi piano: «Impara la resa dell’attimo al tempo / questo accadere umile / di cosa ottusa / di foglia volata. / E si metteva a cullare qualcosa di furioso / che si calmava lentamente […] E tutto diventava inverno / ma mite / senza pelle né graffi né fiori / solo un pensiero poco mosso / nella calma di vento».
Punto d’incontro, se pur labile, con L’altra, ancora la scrittura: «Qualcosa ha abbassato le palpebre / e quello sfarfallio quella nuvola / forse è un dolore/ o un nome […] Qualcosa come una voce / bisbiglia di camminare / ancora sulla terra dei fogli. / Altra stella non c’è / per incontrarci».
La poesia di Frisa è saldamente ancorata a un portato culturale sontuoso, che convoca il simbolismo di pregiate opere d’arte figurativa, la suggestione di melodie che s’inseguono su clavicembali secenteschi, su viole da gamba barocche, nell’aura di numi d’arte e squisitezze, che emergono in filigrana: Emily Dickinson, Lucrezio, Shakespeare; George de la Tour, Vermeer van Delft; François Couperin, Maurice Ravel; Jorge Manrique, Cielo d’Alcamo, Gaspara Stampa; la messe di evocazione visiva, ritmica, uditiva, emotiva fa di queste pagine un’opera dai contorni orfici, per il valore iniziatico e rituale dei segni (parole, colori e suoni) con cui l’ispirazione lirica si concretizza. Tuttavia, le presenze evocate a fare da scenario mai esitano in un aulico immemore della vita: «Nascono tenere le cose. / Da un grembo vanno verso / un grembo. / Luce / stretta/ tra due ombre. / Libertà non c’è né elevazione; / la terra sta tra le sue sbarre. / Solo il sogno è respiro».
Pure, è bene dire che, nel concetto di poesia come flusso potente, nomade e istantaneo, insurrezione al patire, alimentato da ardori policromatici e politonali, Frisa mostra delle affinità con Cvetaeva: poetessa-fata, che creava e rivendicava un regno scosso da tempestose meteorologie, in cui ogni opposto era accudito e compresente, in continua dialettica e metamorfosi, in deflagrante perpetua energia: «Il cammino delle comete / è il cammino dei poeti: bruciando e non scaldando, / strappando e non coltivando – esplosione e scasso – / il tuo sentiero crinieruto, storto, / non è previsto dal calendario!»3.
Anche qui la poetessa si fa dimora dell’estremo, e ha cura di ogni dismisura che, da cavità geologiche, emerge al teatro dei vivi; ecco Frisa: «Per sentirsi legato alla catena / della vita e a tutte le creature / in pena, chi nel deserto medita / vedendo i demoni e fame e sete/ prova di quello che manca e d’ira / intride l’amore di grida il canto»: nelle intemperie, rimane sovrana e romantica l’immagine del cantore, che non accetta «patti tra l’alto e il basso» ma attizza «i culmini» facendosi «vaso spalancato», per poi richiudersi «in sé nel suo buio». È come confessione, per la poetessa, dirsi qui nel tentativo di «traversata del cervello / segnato a morte dall’urto degli opposti»; similmente, ancora Rosselli: «Se l’inferno è una cosa vorace io temo allora essere / fra di quelli che portano le fiamme in bocca e non / si nutrono d’aria!».
Nel compenetrarsi di autoritratti notturni e diurni, l’anima poetica subisce le aurore e discende nel giorno, addensata in un «groviglio di chiodi», oppure s’incarna in un’animalità femminile arcaica, intrisa di potenza: «Mi vedo / compiere gesti ampi segnare / l’aria con dita da sciamàna battere / terra e tamburi accovacciata a far nascere / far nascere / e non morire mai».
Inesausta, fino alle composizioni più recenti, la tensione tra pienezza brulicante di percezioni – origine e movente del lavoro poetico – e brama di vuoti mistici, assetati di luce, dove pulsa «un’idea molto antica d’armonia».
In Ritorno alla spiaggia, in particolare, sembra regnare un’immobilità sospesa, fluttuante sulla meccanica dei giorni, un bastarsi piano, nella culla della risacca: con l’amato, al cospetto del mare, vivere il nido riposto, e, come in un amnio, il quieto silenzio: «Qui non arrivano voci / Il bàttito marino / impone il suo silenzio […] Dicono che il bambino nuoti felice / nel grembo e rida e pianga / – ma piano – come velato […] (È lì che si vuole tornare / protetti e smemorati / i pugni stretti / sulle cose perse)».
Tra i paesaggi abbacinati, assetati, eliotiani di Elea, tra le «dolci ombre/ del perduto paradiso» che ancora posano nell’antico tempio della nuca, tra «echi» e «contrappunti» di minerali ed astri; nella «stessa placenta / dei solidi e dei liquidi / dei morti e dei vivi», in «confidenza sonora» con la Rêveuse di Marin Marais, con l’esorcismo musicale di Olivier Messianen a Görlitz; ecco, in tutto questo affannarsi o affidarsi, recriminare o tacere, «le cose sono abituate ad andar via / lasciano la loro gravità / come aloni sulla cera»; ed è forse proprio questa dimensione naturale del dissipare e del dissiparsi che rende immortali, in puro dono e bellezza, nell’ignorare calcolo e intenzione; così Cvetaeva: «Io voglio tutto, con anima di zingaro / tra i canti andarmene brigante / per tutti soffrire al suono di un organo, / amazzone, lanciarmi alle battaglie»4; e così Frisa: «Per vivere ho bisogno del mistero / occhi di un’altra specie sacre pietre / dipinte o incise nel buio delle grotte».
Per onorare l’esistenza c’è bisogno di ardore e sgomento indifeso, di verità; come anche, in epigrafe all’ultimo componimento, Emily Dickinson: «Ragazzo d’Atene / sii fedele a te stesso / e al Mistero / Tutto il resto è Spergiuro».
da I miti, le leggende (Rebellato 1970)
Solo chi sale conosce il precipizio solo
chi ha tante braccia sa lo spazio e il ritmo.
Ad ogni cosa mi portano segreti canali
quando le torri delle parole si rovesciano
in pozzi. Sepolti tutti i significati,
allora aperte si allacciano correnti
universi creati dentro altri. Il gallo
canta ed entra la sua voce nel nuovo
grembo del mattino che fu seme notturno
e sono albe tramonti frutti delle ore. Girano
gli occhi sul fondo delle lune, nuotano
verso il giorno che le ritorna morte
come pesci. E lo scheletro sta diventando
luce ho ancora sangue e nervi,
questo viaggio è testardo: è sempre
chiudere il libro, e, soli, tentare.
da L’altra (Manni 2001)
Se al culmine del giorno o della notte
ci cogliesse una preghiera se il corpo, a certe ore,
si allontana,
se è vero questo, se scrivere è
rovesciare l’occhio indietro allora
_________visioni
esploderebbero nello stomaco nell’orecchio
forse ci sarebbe letizia
vigilando il mondo nel punto del suo letargo
________vigilando in preghiera
________________nel vuoto
forse
grandezza ci sarebbe.
***
In quel bianco come fosforo e gesso
lei sapeva
di chiedere solo un po’ d’ascolto
era così semplice
forse se l’avessero ascoltata
non sarebbe finita così presto in quel luogo
di ossa e pietre d’aria secca
ma non si compativa voleva solo
una dilazione
ancora qualche immagine colorata
qualche suono lussuoso
tornare insomma cieca e sorda
e lo chiedeva
in quel silenzio di neve senza luce
chiedeva alle sue labbra
a un nodo del suo cervello antico
dove c’è stupore e tremito
chiedeva al suo ombelico incantatorio
alla divinità delle sue dita
non ancora
quella pace
di cometa.
da Disarmare la tristezza (Dialogolibri 2003)
Le parole
Le ama ancora nella loro dissennata
liturgia e nella loro folla cerca
un doppio che sembri ancora vivo,
e ama il loro rotolarsi
per espellere la disperazione
che sulla pagina imparerà uno stile.
Più infelice e inquieta se non scrive
scrive per aggiungere un po’ di fiato
al fiato il suo poco amore
all’amore se un giorno aveva traboccato
se si era fatta trapassare dall’ebbrezza
di suoni uomini mare alberi stelle
notte vento animali
e se sapeva emozionarsi.
Quale poesia – si domanda –
ha l’arte di disarmare la tristezza?
da Sonetti dolenti e balordi (CFR 2013)
Per vivere ho bisogno del mistero
o ragazzo d’Atene tu soltanto
mi ascolti e parli con gli dèi seppure
morta è l’infanzia dei templi e le siringhe
non di Pan assaltano i recinti sacri
e rifiuti di plastica e le cicche
cantano inni osceni in un casotto.
Lasciatemi qui a piangere e a imprecare
io dei balordi sono la vestale
carriera non seppi fare né il risotto
dissipai le frecce del mio arco fui
immortale e sognavo che i sogni
si sarebbero un giorno fatti carne
grazie al capriccio di un dio balordo.
- Amelia Rosselli, Serie ospedaliera, in Le Poesie, a cura di E. Tandello, prefazione di G. Giudici, Garzanti 1997
- Amelia Rosselli, La libellula, in Le Poesie, a cura di E. Tandello, prefazione di G. Giudici, Garzanti 1997
- Marina Cvetaeva, Il poeta, in: Poesie, traduzione a cura di Pietro Zveteremich, Feltrinelli 2014
- Marina Cvetaeva, Preghiera, in: Poesie, traduzione a cura di Pietro Zveteremich, Feltrinelli 2014