La distruzione dell’amore di Anna Segre, Interno Poesia Edizioni
Soltanto un lettore superficiale potrebbe trovare inessenziale il doppio titolo in italiano e in ebraico di ogni testo della silloge “La distruzione dell’amore” di Anna Segre, se esso non rimandasse, invece, ad un’intima postura psichica legata ai mitologemi della cultura ebraica, nella quale si riassume uno sguardo antichissimo sul mondo.
Non si tratta, infatti, soltanto di alimentare un autobiografismo poetico intessuto di riti come Quella prima sera di Hannukà in cui il padre arrivò «carico di giocattoli»; ma di accogliere un patrimonio iconico e simbolico che, affiancando altri imput formativi, si innesta nel processo creativo dando luogo ad un alfabeto espressivo molto complesso e variegato.
Giusto per esemplificare, nella poesia di Anna Segre, al pari del Vecchio Testamento, di rilevante importanza è la presenza degli animali e la loro simbologia. Nel testo “Ararat”, forse, in questo senso, il più significativo (pag. 15), il cavallo rappresenta il desiderio, il colibrì la potenza contenuta nella piccolezza, la tigre lo scatto omicida, il lupo, con un significativo capovolgimento dell’immaginario non solo ebraico, la lealtà amorosa. Tutti sono imbarcati, evocando un famoso episodio biblico, in un’arca, (figura dell’ Es dell’autrice e archetipo di salvezza, secondo una sovrapposizione di teorie psico-analitiche e tradizione spirituale) che garantisce finalmente un approdo sicuro, dopo le ripetute e distruttive inondazioni del cuore a causa delle trascorse esperienze amorose.
Molto significativa appare anche la scelta di stare, ma con un atto di ribellione, dalla parte delle capre invece che delle pecore, se si pensa ad un passo di Isaia in cui Dio «porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri», ma anche separa le pecore dalle capre, radunando le prime alla sua destra, le seconde alla sua sinistra, posizione riservata, di solito, ai malvagi. E, invece, non solo le pecore elencate da Anna non sono miti («pecore Bonobo/ pecore confuse/ pecore furiose», e soprattutto stupide poiché non sanno uscire dai bassi e fragili recinti in cui sono stipate), ma la cattiva capra diviene figura dell’attesa del bene grazie all’azzardo stesso della separazione, dello sguardo di sfida lanciato da «una parete verticale». («C’è anche una capra: / l’intima, smisurata / attesa di bene / in piedi sulla parete verticale / poggiata a un nulla che sporge»). Questo testo evoca alla memoria, completandolo con una prospettiva futura di bene, quell’altro in cui Umberto Saba – poeta nato da un’ebrea triestina ‒ parla ad una capra «dal viso semita», il cui belato gli ricorda «ogni altro male / ogni altra vita».
E cosi come l’autrice sradica i simboli in quanto stabilizzano nel tempo connessioni tra il reale e la dimensione spirituale, tra ubbidienza e disobbedienza alle norme, allo stesso modo modifica i nomi, che sono tutt’altro che suoni inerti, contenendo in sé stessi una potenza vibratoria capace di generare il bene e il male, di perpetuare giudizi nell’ambito della vita sociale (bisognerebbe leggere con più attenzione i capitoli della Genesi per rendersi conto di tutta la valenza fattrice delle parole). Se apriamo anche a caso il saggio di Gershom Scholem: “I segreti della Creazione”, possiamo trovare ovunque brani che sottolineano questo aspetto. Le parole, insomma, modificano non solo la superficie delle cose, ma la loro intima essenza.
Da qui la necessità di sostituire al termine “omosessualità” quello di “omoaffettività”, che, spostando l’attenzione dalla sfera meramente sessuale a quella affettiva («metafora gloriosa dell’anima condivisa»), intende tanto mettere a fuoco la complessità e la forza trasfigurante di quel “vortice del sentire” che investe la totalità della creatura amante, quanto rovesciare, come scrive Margherita Giacobino, che ha firmato la prefazione, la convinzione che il legame tra due uomini «supera l’amore delle donne» (significativamente il titolo in ebraico Hibat-Jonathan allude alla relazione amorosa tra Davide e Gionata) in quella «Che tra due donne possa esserci un legame che supera l’amore degli uomini».
Ed è nel territorio dell’amore che l’autrice irrompe con la sua febbre inquieta, con le sue parole che disegnano una nuova mappa dell’esistenza, portando con sé i poli infuocati della cultura classica: “Eros che scuote la mente” e “squassa il petto” di Saffo e l’«excrucior» di Catullo che grida «Odi et amo» e il loro lungo corteo dei personaggi mitologici, come in: «mio passero/ mia ala sinistra/ mia creatura piumata sontuosa adorata,/ troppo vicine al sole», dove è chiaro il rimando alla leggenda di Icaro; e il piglio guerresco dei poemi epici, l’audacia di chi ha saputo scardinare i temi topici della letteratura. Nessun riposo, nessuna tregua, così come avverte il titolo della silloge “La distruzione dell’amore”, che però getta da subito il lettore in un’ambiguità interpretativa, a seconda che quel complemento di specificazione (dell’amore) venga letto come oggettivo o soggettivo.
Nel primo caso si tratterà di demolire tutta la retorica amorosa imbastita soprattutto attorno ai ruoli (nella convinzione che «Provenire non vuol dire/ appartenere,/ è solo il punto di partenza, un cognome sul documento»): «Se vuoi davvero essere contro,/ parla dell’istinto materno e parlane male» a cui fanno eco i versi di “Maternità” (pag.79) in cui la Segre ringrazia Dio di non avere avuto figli sottraendola a «quelle quinte di dolore/ che questo teatro/ vuol farmi credere di amore»; e ai rapporti interfamiliari come quelli con il padre (“Papà”, pag.77) improntati ad un odio reciproco, a una battaglia senza requie, destinati, tuttavia, per fatalità, per il potere magico degli horcrux piazzati in lei, ad una sorta di eternità. Sembra di sentire la furia verbale di “Daddy” di Sylvia Plath che non poteva non venirle in mente, visto che la Plath, evoca del suo odioso padre l’ «Arian eye, bright blu» e quel suo idioma osceno che le faceva pensare volesse portarla via in qualche campo di concentramento.
E’ una guerra, quella della Segre, che si dilata in quella cocciuta ripetizione di “Non è vero” che scuce i fili che vestono il mondo (significativamente il titolo del testo è “Telaio”) di un’infinità di luoghi comuni che pretendono dare risposte preconfezionate all’imprevedibile manifestarsi della vita e alla soggettività delle reazioni individuali, schiacciando, etichettando, appiattendo: «Etichettare appiattisce fino alla bidimensione». Allo stesso modo l’autrice rifiuta di essere imprigionata in frasi fatte, di sentirsi radicata in qualsiasi dove, limitata dall’astrazione abitudinaria di certi doveri, dal controllo stesso dei propri sentimenti e decisioni, convinta com’è che ciascun essere vivente sia un abisso insondabile, abitato da una molteplicità di “io”.
Che cosa la spinga in questo ginepraio di dubbi non è la ricerca della verità assoluta, visto che «nessun ismo o esimo / sono accettabili», quanto piuttosto indagare ipotesi, sperare più che credere, ricominciare dalla gemma che rimane sul tronco tagliato, sfidare, anche a costo di essere espulsa dal sistema: «si può rifiutare/ la forza centripeta/ del sistema/ in ragione di/ un sé divergente/ e essere ancora amati?» Ed è in questa domanda che si svela «il buco nero senza fondo /che non so dove affaccia», che trema il desiderio di essere amata, di giungere ad una pienezza e si squadernano quella che lei chiama la carità di essere l’altro, la tenerezza di chi sa paragonare il suo cuore («Il cuore è un passero / che mi frulla nel torace») e l’amata ad un passero («mio passero/ mia ala sinistra/ mia creatura piumata sontuosa, adorata»), piccolo uccello consacrato a Venere, dea dell’amore.
Ma l’amore che racconta la Segre è instabile (e qui s’inserisce l’altra lettura del complemento di specificazione -“dell’amore”- nel titolo del libro): ferisce, abbandona, germoglia, appassisce, distrugge, è cieco, furioso, delicato, sciocco, incomprensibile.Viene da pensare che l’autrice abbia voluto, sì, mettere a fuoco sé stessa nella relazione con l’altra, ma soprattutto, ricorrendo alle conoscenze ed esperienze maturate in qualità di psicoterapeuta, compilare una sorta di manuale di casistica amorosa, instaurando anche attraverso la poesia un dialogo con tutti noi che la leggiamo e ci identifichiamo nelle fragilità e nei limiti della natura umana, che in nome dell’amore, può giungere a clamorose atrocità, oppure elevarsi all’altezza del fare divino.
Franca Alaimo