Il sole scalcina il muro d’accecanti rose rosse
Dove è il sole che scalcina il muro del mondo è il riverbero rosso delle rose. Un fiore coi suoi piccoli boccioli rossi come rosso è il sangue rovente versato con eleganza di parola sulla parabola dello sguardo per far sì che sia predisposto il profumo nel vuoto e del vuoto quel salto incompiuto dal corpo quale centro a immagine e somiglianza di Dio, e se questo accade, se l’uomo specchia la visione divina è perché ne viene avvertita l’intima risonanza, perché Credere in Dio è essenziale anche nell’anno nuovo, scrive Allì Caracciolo nel suo Anacronia – Blood, edito Anterem nel 2022 nella collana Piccola Biblioteca, raffinato gioiello in prosa, levigata forma dell’opale nel pensiero.
Cosicché dal suo essere origine che si cerca, l’esegesi della Caracciolo si muove nella compattezza ellittica del tempo mentre il tempo a sé stesso tuona di suo ritmo l’Anacronia dialettica di un discorso rappresentativo l’ingresso della vocalità assunta a misura di un dettato stilistico che si osserva osservando la scenografica narrazione di un mondo in questo margine tutto umano scomposto in quinte di teatro che flettono l’equilibrio modale del respiro trapassando il senso univoco di un parallelo per porgersi, con mano ferma occhio esperto, alla visione del silenzio narrante laddove il silenzio sembra finire e invece è ancora un inizio da registrare partendo da quell’Uno astrale che partecipa della cronistoria di una relazione umano-disumano che ha suo principio nel divenire indecifrabile delle cose, nella Straordinaria abilità dell’uomo e singolare ingenuità a percepirsi intero viso, cuore, corpo, quindi è per ragione d’impatto che la Nostra sottolinea l’importanza di crearsi una sinusoide lungo la quale muoversi con la singolare convinzione che la curva del tempo abbia le porte: chiusa una se ne apre una migliore. / Uno gennaio. Hanno detto che comincia un anno e ne finisce un altro. Un altro silenzio si staglia all’orizzonte, comprime il verbo in un abbraccio di finito che mai finito si poggia di tremante attesa sulla spalla del tramonto che persiste rosso dentro la trama della pelle quando incessante sgorga la piena del suo sangue che allaga la terra mentre esce la vita! sopra a tutta la macellazione urbana, sociale, interna e svelata dietro quella porta, un attimo sempre prima che ne sia aperta un’altra per poi fiorire la speranza inclusa dentro il canto purpureo che al tramonto ancora torna. Una circolarità perpetua, incessante, che mai disgiunge dalla bellezza profonda che attinge alla forza misteriosa del vero la forza della bellezza costa si paga con la solitudine sua percepita assonanza, rispettosa cadenza di un gesto salvifico malgrado sia inciso il bagliore di una fine che mai tale sarà se a computare il tempo c’è sempre una irriducibile mancanza: Novantanove. Manca uno per traboccare il vaso. Dicevamo la mancanza, postura interpretativa di tutto un esistere dentro a un paesaggio numerato solo per convenzione, per non perdersi d’assoluto nell’assoluto che trabocca il vaso, per non assentare il focus di un linguaggio che si chiama indipendente da ogni qualsivoglia preconcetto stilistico a misura pur anche del creato, di un continuum crearsi sostanza nella spazio di un legame primigenio che né comprime né nega l’indissolubile appartenenza al buio e alla luce, al bene e al male, l’intero del sangue, vena generativa del nascere ogni giorno con stupore.
Daìta Martinez