Il tema, la rete di richiami, le citazioni, la forma (la cosiddetta gabbia metrica), ma anche la sintassi, il lessico, i virtuosismi stilistici: l’analisi dell’ultimo libro di Andrea Castrovinci Zenna, Inverni, edito per i tipi di Terra d’ulivi, può attingere, e trovare profondità, in ciascuno di questi pozzi.
Approfondire il tema, per esempio, consente di risalire l’elaborazione dolorosa, ardua, del lutto per la perdita della madre del poeta; tema già al centro della raccolta precedente, qui ulteriormente specificato, con tutto il carico di ombre che a questo percorso può essere ascritto: rimpianti, rimorsi, pentimenti, ma anche forme di riparazione, rivalutazioni, tentativi di risarcimento, che nel loro affastellarsi elicitano nel lettore una subitanea empatia e tuttavia, contemporaneamente e contraddittoriamente, un vago senso straniamento, difficile da decifrare.
Sottolineare il lessico ricercatissimo, la convivenza tra arcaismi lessicali e termini colloquiali dentro la forma rigorosa di endecasillabi e settenari, per lo più ma non soltanto; e poi le rime, le assonanze, e tutto un corredo di figure retoriche (e mi soffermerei in particolare su iperbato e anastrofe) che conferiscono alla lettura il sapore di uno struggimento antico, assai bello ma che spiazza, che, ancora una volta, straniando disorienta.
Andare in cerca e perdersi nello sterminato tramaglio di citazioni più o meno esplicite, e che rimandano alla poesia della tradizione letteraria italiana del novecento e non solo: godersi per qualche istante il piacere di riconoscere modelli, parentele, ascendenze, echi, e immediatamente però arrestarsi, perplessi, colti dallo stupore, dopo la meraviglia: questa – la meraviglia – per la luminosa padronanza che il nostro autore palesa rispetto a una materia che indubitabilmente maneggia con agilità, nell’ampio e nel profondo; quello – lo stupore – che viene incontro serpeggiando dentro a un perché. Perché un uso tanto pervasivo della citazione? È sfoggio? È manierismo? Né l’uno né l’altro se, come si converrà leggendo i versi di questo libro (come del precedente di cui costituisce il necessario ampliamento), non si avvertono forzature, stonature, se a fronte di tante citazioni l’andamento dei testi non dà un senso di artificiosità ma anzi, stranamente, di naturalezza: convintamente faccio mie le parole di Franca Alaimo che nella postfazione evidenzia come la poesia di Castrovinci Zenna aderisca “perfettamente non solo al teatro della sua anima ma addirittura al suo stesso sistema nervoso”.
“La tradizione – affermava Eliot in uno dei suoi scritti critici – non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare. Chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica”. Postulato, questo, che implica un impegno di spiccato spessore, direi quotidiano, serrato, estensivo assai più che intensivo, un processo di appropriazione simile a quello che si realizza nell’apprendimento della lingua materna.
Per questa via, forse, è possibile giungere alla chiave per leggere questo libro e per superare lo straniamento cui accennavo prima. Se non ci si lascerà irretire da uno solo dei possibili vertici di osservazione che ho tentato di delineare fin qui, adottandone uno a scapito degli altri (colpiti esclusivamente dal tema, così soverchiante quale è l’elaborazione di un lutto tanto dolosamente avvertito; dalla forma e del lessico così inattuali; dalla dovizia delle citazioni), se non si disperderà la complessità di questo lavoro e se ne tenterà invece una visione complessiva, se ne potrà forse cogliere la vera forma, la buona forma, la Gestalt di cui ci insegna la psicologia tedesca, che scaturisce come qualcosa di diverso e di più rispetto alla mera sommatoria degli elementi di partenza.
Questo di più risiede, fatalmente, nelle relazioni che si creano tra le parti. Le interrelazioni tra tema, forma e “materiali di costruzione”, come chiamerei le appropriazioni di versi e modelli, concorrono qui, congiuntamente e inestricabilmente, all’edificazione di un ponte. Torna spesso, nelle mie riflessioni, questa idea di poesia come ponte e del poeta-pontefice tra sé e l’imprendibile, tra la propria veggenza e l’ineffabile, il poeta-ponte egli stesso. Forse non è una immagine particolarmente originale, ma mi sembrava si attagliasse particolarmente bene a questo come al precedente lavoro di Castrovinci: un ponte gettato oltre la nebbia e il silenzio, un ponte il cui materiale costitutivo non è però, qui, scavato, estratto nuovo, direttamente dal ventre di una cava, ma è frutto di un prelievo da precedenti costruzioni, ri-cavato, cavato nuovamente, rinnovato nell’uso. Qui troviamo in nuovo ordine in ragione di un notevole sforzo costruttivo, compositivo, colonne, capitelli, architravi, parti di pavimentazione appartenuti a un’altra epoca, ad altra costruzione, e qui fatti rivivere, fatti nuovamente pietre che risuonano e cantano sotto i passi vivi di chi torna a percorrerle.
Un ponte di parole, un ponte linguistico: e che cos’è, questa di Andrea Castrovinci Zenna, se non una lingua, l’unica possibile, che consente di riprendere il dialogo, i colloqui, con la madre, tanto invocati lungo tutta la raccolta? Con quella parte di sé che la figura della madre rappresenta, con la “speranza bambina” del poeta?
I prelievi, tanto quanto il lessico, tanto quanto la versificazione, le sonorità, costituiscono l’architettura di una lingua privata, esclusiva, capace di generare un perimetro, dunque uno spazio di appartenenza, un luogo verso cui poter tornare indefinitamente attraverso il potere immortale della letteratura. Il lavoro del lutto – i passaggi – è perfettamente rappresentato, la sensibilità del poeta è espressa attraverso il filtro del proprio apparato conoscitivo, la tradizione letteraria, i modelli amati, ma questo libro non esaurisce qui il suo portato. In Inverni a essere rappresentato è anche il “ritorno alla lingua” di cui parla Gadamer, alla lingua materna. Gadamer diceva che la poesia è sempre un ritorno alla lingua. Qui Castrovinci rappresenta anche questo viaggio e la propria estraneità lungo il percorso, lo straniamento nell’andare, l’impossibilità di nominare.
L’impossibile diviene qui realizzabile percorrendo un ponte linguistico verso un territorio protetto, privato, dove non assoluzione né ristoro sono vagheggiati, quanto la possibilità di portare a termine o almeno proseguire un discorso avvertito traumaticamente come interrotto, spezzato, letteralmente sconclusionato, privo di coerenza logica e conclusione, in cui sono andate perse l’ordine abituale delle cose (pensiamo all’uso dell’iperbato e dell’anastrofe che segnalavo prima). E l’opzione metrica, in questo stesso senso, più che una perimetrazione coercitiva del respiro, appare a questo punto come l’unico spazio vivibile, per il poeta, non muro ma orizzonte, non gabbia ma nido, un nido metrico.
Patrizia Sardisco
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