«Che cos’è la poesia se non sfoggio di forma?! Esercizio retorico, esibizionismo lirico di un’indole nostalgica? È struttura, inutile struttura». Questo mi ha detto tempo fa un saggio, colto e razionale amico, leggendo i miei “esercizi di stile impoetico”; profilo compassato tutta forma e disunita identità; un intellettuale, forsanche accademico, anacronistico: solennità aristotelica, manicheismo crociano, sclerotica cecità di un ideologo del secolo scorso, tutto materialismo anaffettivo. Vero, avrei voluto dirgli, è nel prosaico gesto del quotidiano che si misura l’agone dell’uomo contro l’uomo, si contano le vittime e si quantifica la sostanza agonizzante del sangue; la poesia, se c’è, è intimità aderente di significante al cuore disadorno e scomodo del significato; permea i confini resistenti della pelle con un’urgenza di onestà e la consegna alla tensione inesausta, inappagata del viaggio; restituisce all’uomo l’alleanza con l’uomo nel suo rivelarsi complice di una seduttiva discreta inane denudante alterità-verità di frammento. La poesia non ha certezze positivistiche, ricette scientifiche, ma proietta crepuscoli di dubbio su sentieri di perfettibile distruttività. È pedagogia della disappartenenza all’illusione artificiale ed ostinata di radici trapianti ed innesti che chiamiamo Storia, feroce e tenero risveglio di una coscienza universale esilica.
Mattino
Si spoglia pendulo
in dita di fusciacca
un madore invertebrato di solstizio.
Lungo l’arco fresco dei fianchi
si impigli l’armistizio nudo
delle ore a liberarmi la luce
d’un trasalire tepido di pelle.
*
Oggi è venuto il vento
a dirmi a palmi aperti
la superficie corrugata del vuoto
la turbinosa afonia dei capelli.
Ed io a durare la pazienza
smarrita delle pupille
che dismaglia il cielo
in grida (appelli) di silenzi
*
Le nostre mani hanno il gesto
negletto di eretico
ossame assuefatto a restare
disunito e infecondo
oltre la preghiera ortodossa del cielo
dove soffiano infermi i venti
di condanne distratte
abiuriamo infedeli
al sordo cascame di una stanca deità.
Nasco nella provincia pugliese, in una data storicamente emblematica, 7 novembre, sull’agonia di un muro; figlia di operai, appassionata di cose umanistiche e naturali; frequento il liceo classico di una borghesissima e opulenta città del tarantino, dove maturo livori anticlassisti e alimento una passione innata per la storia e la letteratura; mi laureo in letteratura italiana con una tesi sulla letteratura bucolica in volgare d’età aragonese; un tentativo di coniugare e fare sintesi delle mie inclinazioni.
Abilitata all’insegnamento, approdo in Piemonte, in terra di Langhe e resistenze, dove lavoro come docente di italiano e latino nei licei dapprima da precaria, poi a partire dal 2016, vincitrice di concorso a cattedra, come docente di ruolo nel Liceo “G. Spezia” di Domodossola, anch’essa terra partigiana.
Un filo conduttore, quello resistenziale di repubblica in repubblica, che si spezza quando due anni fa ottengo il trasferimento in Puglia, dove attualmente insegno, nel liceo “Pepe-Calamo” di Ostuni e vivo. A volte scrivo in versi a volte in prosa, e raramente pubblico.