ACQUE DI CONFINE
I.
Un turbinio, rumori umani, viali.
Quel che è successo infuria in un tempo
cristallizzato: l’aria è il passo
verso la costa, gli occhi che guardano
sono le case, il corteo, le panche.
Mantenere la vita, sollevarla
alla bocca, senza occhi a sponda della fine.
V.
Il tuo viso o anche soltanto l’inverno
dei passi, i larici: l’andare oltre
le panche della tua solitudine.
Perché è tanto il tempo dell’insonnia
e nella luce dissolvi i volti amati.
VIII.
Cani a valle, le nubi escoriate
nel freddo di sempre. Puoi ancora
sentire il gheppio che svola scoprendo,
prima e dopo lo sparo,
l’urlo dentro la nebbia,
il tempio del croco e del grano dove
sono disparse le ossa del nonno.
XVII.
Non si appiana la sete. È un altro giorno.
Scatole vuote, parole deposte a margine.
Costruzioni, una favola antica.
Ascolto il vaticinio dell’onda,
mi si riconosce figlia: s’infrange su un padre che
si recide la lingua.
DENTRO LA FOSCHIA
I.
Ogni cosa sussurrata alla luce
rivela gli occhi dell’uomo, mai il verbo
che dirige il sangue e lo nutre
delle voci dei suoi testimoni.
III.
Ogni parola è una casa divelta,
tra gli assetati nessuno più ignora
la propria ombra. Gorgheggi nell’acqua:
tutti conducono al medesimo sonno.
IX.
L’istante in cui pronuncio parola
appassisco e mi do alla luce,
alla voce che infiora.
XIII.
Rimanere negli abiti consunti
come dire un sentiero di impronte,
i cappotti infangati, ancora
seppellire l’infanzia. Non c’è vento
tra gli ulivi riarsi,
né altre età da annaffiare. Com’è
orfana questa sete senza lingua,
com’è rara quest’ombra che ci idrata.
CANCELLI
I.
L’urlo, la zolla spaccata, la breccia celeste.
Quali acque cantare. Quale fine.
Lanterne di versi senza più sponda.
V.
Padre dentro di me precipitato,
serrato nella pelle delle cose
inabitate: per non smarrirmi, ora
che dietro la schiena
non più resiste
il calco dell’ombra al tuo passo,
le ferite ugualmente distanti,
riconoscimi almeno il tepore
dell’addio, ché a rimanere qui
affamati d’amore non si vive.
VI.
Case, sibili, madre: sottrazioni di voce
a fluire. Lo sguardo è sepolto
sotto la tua casa. Mani tronche
inseminano il tuo focolare.
XI.
Non esiste innocenza nel giorno: le nostre ombre
perse tra gli uccelli crollano sulle nuche.
SONO QUI AD ATTENDERE RIPARO
IV.
Necessaria ferocia, il diniego, l’attesa.
Il cammino verso il cerchio oramai chiuso
degli anni. Parvenze di confessione,
un patto di ordinaria sussistenza:
gerbera riarsa contro l’aurora.
VI.
Come vero e sofferto il lido, il sogno
o il volto che trema, fra le acque
la parola si svuota,
ogni casa ritorna.
XVI.
Non mi attende altro. Il riverbero sul selciato,
le gerbere avvizzite: un forse nelle lunghe
notti in cui il mio cuore ritorna al suo avvento
XVIII.
Dire a occhi chiusi,
come specchi contesi
alle feritoie del tempo, cos’è
l’incandescenza sui volti, il buio
nella loro eco, l’ombra sul pane
che visita il nostro tempo minimo.
Pietro Romano (Palermo, 1994) si è laureato in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna con una tesi su Nino De Vita. Ha pubblicato alcune raccolte poetiche, tra le quali Fra mani rifiutate (I Quaderni del Bardo, 2018) e Case sepolte (I Quaderni del Bardo, 2020- pref. di Gian Ruggero Manzoni, postfazione di Franca Alaimo), quest’ultimo classificatosi tra i libri finalisti del Premio Mauro Prestigiacomo. I suoi versi sono stati tradotti in russo («Мой дом — до молчанья», “La mia casa è prima del silenzio”, Free Poetry, 2019, con pref. e traduz. di Olga Logoch, collana di poesia italiana a cura di Paolo Galvagni, traduzione di Fra mani rifiutate), greco, catalano e spagnolo, e inseriti nell’antologia Le parole a quest’ora (Free Poetry, 2019, a cura di Paolo Galvagni). Feriti dall’acqua (peQuod, 2022, collana Portosepolto a cura di Luca Pizzolitto) è il suo ultimo lavoro.