Venerazione della dimensione del divino, estensione mistica, e impossibilità di tradurla senza scendere a patti col tradere, la traditio che inevitabilmente compromette e deturpa.
Da ciò nasce la dialettica del dramma e il disagio complementari e simbiotici di ogni poíēsis.
Disagio ed inadeguatezza, nel mio caso, di fronte al necessario e reiterato scavo stratigrafico, atto a sezionare zone insondabili nell’ossessione di un assoluto atemporale, e a soccombere dinnanzi al fallimento, all’inganno che si cela dietro l’ordine cosmico di
un diagramma di Harris.
«Tutto è niente – questa è la rivelazione iniziale dei conventi. Così comincia la mistica.
Tra il niente e Dio c’è meno di un passo, perché Dio è l’espressione positiva del niente», afferma Cioran1.
Perciò qual è la parola adatta, se esiste, ad esprimere l’interminabile stasimo, mi chiedo.
Uno spasimo premonitore, catabasi e anabasi, catasterismo o solo silenzio, ascesi, sogno ed epifania di un indefinibile grido, attenuato e sminuito dalla parola che freme, che si riversa dalla piaga senza cauterizzare: tutto e niente.
E allora si resta in piedi, davanti al sepolcro, come colei che non ha niente da perdere, niente da dire, in ascolto del silenzio, morti a ogni dissomiglianza2 , in attesa dell’impronunciabile, come se tutto ti annunciasse la poesia3 .

1 E. M. Cioran, Lacrime e santi, Adelphi, Milano 1990, p. 41.
2 Eckhart, Puella surge e altre prediche, a cura di M. Vannini, Milano 2015, p. 47.
3 A. Pizarnik, La figlia dell’insonnia, a cura di C. Cinti, Crocetti 2020, p. 143.


*

Disseto il Regno ma l’aguzzino
pianta spine, marruca a covoni,
macigni sui denti.
Aspetto un invito all’avvento
e ad ogni incrocio scende l’alato,
m’insuffla rubidio.
Come lei anch’io so che la dracma
perduta non si ritrova
perché il perdersi è di necessità
Grazia,
ritorna quando ormai è troppo tardi.

*

Oh sì, contro le corde in delirio
e contro il perdono, contro l’angelo
senza ferirlo

che livido di clamore,
che mente senza ammansire la rabbia
in quieta strage covata nel sonno.
Due occhi nel tuo senza svilire
l’angoscia,
la mia dimora di schiere.
Si crepa stando fermi,
legati come le voci al cingolo.
Oh sì, è tardi per il memoriale,
svigorito l’inganno, rimane a brandelli
avvelenata sotto la clamide.

*

Se questo stare mi elevasse a dismisura
o mi affondasse da rade scoscese
resterebbe l’amaro, l’inganno
equilibrista.
Più dura della selce
hai reso la mia fronte,

inetta di un’anima intrusa,
ignara che non va oltre
il crogiuolo dell’amore
e araldica quantità di condono.
Perdonerò il silenzio
solo se confessa la colpa d’ignavia.

Non mi perdonerò mai il troppo,
questa cavità oculare,
se la fedeltà che annichilita scalpita
non verrà a riesumare i santi.


Sarah Talita Silvestri (Palermo 1982) vive a Bra, in provincia di Cuneo. È laureata in Archeologia e Storia antica presso l’Università degli Studi di Torino, si occupa di numismatica antica e collabora con associazioni culturali e musei; è docente presso la Scuola Secondaria. Alcuni suoi inediti sono apparsi su Atelier.