Intervista a “Francesco Deiana, il filosofo” e tra virgolette non ci scappa l’endecasillabo

foto di Anna Maria Scala
foto di Anna Maria Scala

Francesco Deiana nasce a Torino nel 1981, è un docente di filosofia, un poeta e un performer torinese, porta avanti l’attività poetica partecipando e organizzando reading e Poetry Slam. Fa parte del collettivo “Incontroverso” attivo da alcuni anni sulla scena letteraria torinese, conduce la trasmissione radiofonica “Poetry Club” su Radio Banda Larga ed aggiorna con regolarità il suo blog. Per Matisklo Edizioni ha pubblicato “Storia della filosofia a sonetti”, scaricabile su tutte le librerie on-line. Lo stesso testo è edito dal 2016 in cartaceo per i tipi di Sui Generis.

SS: E aggiungo io, un gran figo. Uno di quegli artisti che non se la tira, di quelli che conoscono il proprio valore e da esso traggono il meglio.
Ricordo ancora come mi guardò quando, dopo avere assistito a una sua performance, gli dissi: “Ou Francè, assomigliate tanto a Gioacchino Belli”. Di quel Belli però senza né padre né madre de li santi e de le sante. Perché il Francesco nostro, con il Belli vi ha in comune l’endecasillabo facile senza l’uso dello sproloquio, anzi oserei affermare, un uso quasi sublime dell’eloquio sonettistico.
Ma passiamo alle cose serie, lampada dritta in faccia e prima domanda: “Lei Dottor Deiana, ricorda bene quel momento, quando ci conoscemmo e la paragonai al mitico sonettista romano?”. (Non rispondete no, altrimenti possiamo concludere subito l’intervista -SupplicadR-).

FD: Certo che mi ricordo, mi ricordo anche cosa mi hai detto subito dopo: “se continui così mi farai piacere la filosofia!”. Continua a essere uno dei complimenti più belli che mi siano stati fatti. In fondo il senso di “Storia della filosofia a sonetti” è proprio questo, avvicinare alla filosofia quante più persone. Aver insinuato il dubbio in una persona scettica, quale tu mi sei sembrata, è stata già una vittoria. E poi riuscirci con la poesia e i sonetti, che nell’immaginario collettivo sono spesso considerate tra le cose più noiose al mondo, mi dà una doppia soddisfazione.

SS: Ecco, dunque. Perché il sonetto? Confido che la tentazione fu forte. Di interrogarvi in endecasillabo e di pretendere risposta in sonetto alessandrino. Poi per ovvi e risaputi limiti dell’interrogante, ho preferito desistere, Deiana. Allora ditemelo, perché il sonetto? Scommetto che codesta domanda, mai nessuno ve l’ha fatta.

FD: Incredibile! Ma come ti è venuta in mente una tale domanda? Nessuno mai, veramente! Fammi pensare. Tra le milioni di risposte che ho preparato per rispondere, ti do questa: per marketing. Qual è, nell’immaginario collettivo, la forma di poesia più nota e degna di considerazione? Fin dai tempi della scuola la risposta che ci hanno insegnato è stata: il sonetto. Ecco svelato il perché: per essere subito riconoscibile e, quindi, vendibile. Per me scrivere sonetti era il modo più rapido per essere poeta. Tutti siamo speciali e irripetibili, tutti possiamo scrivere cose uniche e meravigliose. Quindi, come fare a distinguersi dagli altri? Scrivi sonetti, mi son detto. Dì quello che vuoi, ma dillo in sonetti. Paradossalmente anche chi è digiuno di poesia sa che quando si parla di sonetti, si parla di poesia e che se scrivi sonetti, sei un poeta. In buona sostanza la scelta è dettata dalla determinata volontà di essere un poeta a tutti gli effetti. (Continua su NiedernGasse)