In alcuni artisti prevale un’ispirazione monotematica, se così può definirsi. In essi la creatività è mossa quasi esclusivamente, e a volte ossessivamente, da un unico impulso: quello erotico accompagnato dal senso di ribellione, ad esempio in Moravia; oppure è un oggetto a monopolizzare la loro inventiva: si pensi, nelle arti figurative, a Morandi e alle sue bottiglie.
Ciò non si può dire per Franca Alaimo, una poetessa che ad ogni silloge rivela sempre qualcosa di nuovo, sia nei motivi che l’ispirano, sia nei contenuti, sia nelle modalità espressive. Sicché se in alcune sue prime raccolte si sente ancora l’eco, seppure lontana, delle istanze dell’Antigruppo palermitano, in altre si manifestano la passione per la botanica o una sensitività così accesa da condurla a processi di immedesimazione, in altre l’anelito religioso o viceversa la prosaica quotidianità, in altre ancora la necessità di ricorrere a una mescolanza linguistica quasi sperimentale pur di sprigionare i segreti della sua anima. Fermo restando comunque il permanere nelle sue liriche di un tratto distintivo comune nei ricorrenti motivi autobiografici, nella ricerca interiore di vicissitudini esistenziali del passato (intrecciati però spesso col presente), nella soffusa cantabilità di una versificazione mai criptica.
Non smentisce, ed anzi conferma, la versatilità dell’Alaimo la sua ultima silloge, “sacro cuore”, edita da Giuliano Landolfi. Una silloge che ripercorre, come in un romanzo, la sua educazione sentimentale e che palesa, senza falsi pudori, una spinta erotica non edulcorata né camuffata da falsi moralismi, seppure mitigata dalla lievità della limpidezza formale.
D’altra parte, a ben pensarci, anche in altre raccolte o in altre poesie dell’Alaimo l’eros è presente, seppure non in modo preminente come in “sacro cuore”, e l’autrice, qualche anno fa, ha curato con Antonio Melillo un’interessante antologia, “Il corpo, l’eros” (anch’essa per i tipi di Giuliano Landolfi), di testi poetici di donne.
L’educazione sentimentale dell’Alaimo del “sacro cuore” segue un percorso lineare che conosce diverse tappe.
Si inizia dall’età della “innocenza”, da quando cioè si vive in una dimensione ignara del sesso: “Sono i giorni sontuosi / in cui s’incontrano fate / gnomi, creature miracolose.”, in un mondo da favola appena scalfito dal presagio, nella voce della madre, di “un intimo disordine del cuore”. Poi la scoperta del proprio corpo: “Mi spoglio davanti allo specchio/ dell’armadio e quando / alzo gli occhi per guardarmi/ (tutto qui il segreto?) / il mio corpo sembra venirmi incontro / con promesse di piacere e dolori / come un universo più grande “. Arriva la pre-adolescenza, quando tra le ragazze della prima media e quelle della terza non ci sono solo due anni di differenza ma una diversa confidenza con i segreti del sesso, e quando divampa quell’”incendio che avrebbe bruciato /la casa tutta gioia della nostra infanzia”. Il sesso fa paura, ma nello stesso tempo s’insinua il tarlo del desiderio: “Era passato un fauno / e aveva il sesso nudo. / Cominciò la tristezza / che divise l’innocenza / dal morso del desiderio”. S’inaugura una nuova stagione della vita segnata dall’innamoramento, dapprima platonico: la notte non si sognano più le fatine ma il ragazzo della porta accanto e i suoi baci; poi ravvivato dal contatto dei corpi: l’amore si fa di nascosto, lui è più spavaldo, lei più guardinga, entrambi però sopraffatti dal desiderio. Quindi accade qualcosa di particolarmente importante, e che lo sia lo si evince dall’essergli riservato una sezione della silloge – la seconda, “L’unicorno” – con appena tre poesie, potremmo dire un’intera e ampia stanza: “Si chinò su di me, / mi infilò nella rosa del sesso / il suo corno. / Gridai forte / perché altrimenti sarei morta. / Il cuore non sopporta / ciò che si approssima / al tremendo della divinità”. Come può notarsi, il piacere del sesso è cantato senza veli, e però nella cornice della grazia di una poesia che, pur nella sua modernità, sembra richiamare la classicità: il che contribuisce a sublimare ciò che altrimenti apparirebbe crudo.
D’altronde, nella silloge dell’Alaimo – aliena, come si è detto, agli infingimenti – l’amore è anche carnalità e, seppure non privo e anzi ricco di riflessi sentimentali, quella carnalità si manifesta nella potenza degli istinti che quasi accomunano gli uomini agli animali: “ due animali feroci che avrebbero voluto / sparire l’uno nelle viscere dell’altro”; “e vivere come animali / presi nella trappola dei sensi”.
Ma l’educazione sentimentale dell’Alaimo non è un mero trionfo dei sensi e l’accettazione della carnalità dell’amore passa attraverso il superamento di un’iniziazione religiosa bigotta, ed anzi, nello scavo interiore dell’autrice, Dio finisce col sostanziarsi nell’amore inteso anche nella sua fisicità: “e cominciai a immaginare / che si nascondesse / nei corpi dei ragazzi / per amarmi / come avevano fatto / tutti i dei pagani”. Peraltro la poesia dell’Alaimo si confronta spesso col divino e col trascendente, e ciò si verifica anche in questa silloge, come rivela il titolo “sacro cuore”. Un titolo, come osserva acutamente Giovanna Rosadini nella prefazione, “necessariamente bivalente” in cui si riflette da un canto “l’originaria tensione religiosa che permea il mondo dell’infanzia”, dall’altro “la figura idealizzata di Cristo”.
L’educazione sentimentale dell’Alaimo si conclude con le nozze: “Ventotto giugno. / I fiori della magnolia / come lune sui rami. / Il velo della sposa / sul letto”. Avvenimento importante, tanto da essere ospitato in un’apposita sezione, la quarta – così come lo è, nella seconda sezione, la rivelazione del piacere estremo dei corpi -, e al quale la poetessa dedica solo due poesie: la sua solennità esige riserbo.
Si è detto all’inizio che ciascuna silloge dell’Alaimo presenta qualcosa di nuovo. Qual è la novità in “sacro cuore”? In parte il rilevo dell’eros, come già evidenziato, ma anche, e forse soprattutto, il suo impianto e tono narrativo. Che ha refluenze sui moduli espressivi che accentuano l’intellegibilità dei versi. L’Alaimo rifugge sempre dagli oscuri ermetismi o dagli intricati e tortuosi barocchismi: la sua cifra stilistica attraversa sempre gli itinerari di una semplicità rivestita di eleganza e mai banale. In questa silloge però, che può leggersi come un racconto in versi, l’autrice ha avvertito l’esigenza di rendere ancora più accessibile la comunicazione poetica. E tuttavia ciò non pregiudica gli esiti estetici – sicuramente alti -. né la musicalità dei versi. Anzi, in una poesia contenuta nella silloge, che piace citare per intera, il gioco di rime e di assonanze, specie interne, dona ai versi brevi (in prevalenza settenari e ottonari) cantabilità e leggerezza tali da ricordare Giorgio Caproni: “Era tutta intera / senza nessuna colpa, / un grazioso balocco, / un fiore di papavero intatto / sotto la gonnella corta. / Venne la primavera. / Tutto respirava, / si mutilava, s’inabissava, / Sei così bella – disse / il dio seduto sulle scale, / i riccioli castani / (un ciondolo d’oro / tintinnante sul petto). / Dammi la tua bocca / e tutto il resto: / su, spogliati, fai presto.”.
Antonino Cangemi