“[…] Scrive come parla perché parla come vive. Con saggezza. Con la semplicità di chi sa apprezzare l’essenziale e lo rende, in tal modo, prezioso. Traspare il divertimento nel giocare con le parole, senza sofisticazioni retoriche o metriche. Per il puro gusto di sperimentare nuove sonorità, portatrici pero’ di significati, e inventare varianti alle versioni ufficiali del dire. Un ricercatore di sostanza che ha superato il vezzo della ricercatezza di stile. Dico, finalmente un giovane cane sciolto, immune dai branchi d’influenza, conoscitore delle strade solitarie al punto da non temerle. Un uomo la cui virilità poetica risiede nello scrivere l’amore come tutti vorremmo viverlo. Con parole nostre. […]”

Gabriella Montanari

“[…] Il poeta quasi trentenne (nato nell’84) è sempre stato dunque un poeta erotico, nel senso meno esplicito e più sensualmente metaforico che si possa immaginare. […]”

Roberto Gigliucci

“Se dovessimo dar retta al vecchio adagio di Platone che “il bello è lo splendore del vero”, allora dovremmo inquadrare la poetica di Gianni Ruscio all’interno di una superiore sincrasi tripartita, una sorta di monstrum a tre teste composto di verità – corporeità – idealità: giacché il vero è la dimensione dell’idea platonica raggrumata nei sensi e nel corpo che si fa parola, il luogo preferenziale dove risiede, nietszcheanamente, la concrezione fisica del nulla, asse tematico che percorre ogni singolo componimento.” […]

Sonia Caporossi

 


 

Un bocciolo intorno all’anima.
Quel bocciolo che non si può dire
e che però dice dell’anima. Dice
dell’anima la sua natura di specchio
o di deserto, dice dell’anima
i suoi incavi e le sue inarcature tese
dice i rumori che non sa di dire
dagli strumenti celesti, costruiti altrove
dalla luce accesa da un’altra parte
di cui non ci è dato sapere la fonte.
Dice dell’amore posato sulle pareti
bianche, delle finestre aperte sul viale,
il viale calpestato dal nostro incontro
quel viale dove le mani erano scoscese
verso la follia, e impastavano occhi,
bende e fiori. Algoritmi della lingua
e della pelle, seni cavi, da impallidire
quando si tornava a casa dalla sera,
come cani sciolti o vecchi sassi.

*

Paramento di luce collassata
esplosa dentro una conchiglia,
ingoiata dall’acume di se stessa
nel buco
che tutto trapassa e tutto divora,
e trafora la nostra malinconia
per portarci lì, sull’orizzonte
della memoria, nelle paludi notturne,
a ridosso dell’ultima gelata del baleno.
Sciogli i nodi del mattino, tornando,
sciogli sul seno originale la testa e
le spalle, prendi le chiavi, togli
il lucchetto. La protezione sarà
restare a guardare la colonna
di fumo che sale, dal focolare.
La protezione era dove il ragù
affiorava
come una lepre
senza testa, e le cerate estive, stese
piangevano l’ultimo assalto del vino.
In quel punto ora ci sono cascate
accanto ai fiori, all’angolo
dei caffè, e dei ciclamini. Anima porta
via tutti i colori, resta sola, voragine
di sangue, ramo del corpo che rimesta.
Affacciati al camino.
Resta. Possiamo, noi, quel ciocco
che arde
in cenere allattata, provare a misurare, senza
commentarlo.
Resta, almeno per stanotte.
Resta o. Ritorna.

*

Stare o non stare
questo è il dramma,
il punto acuto senza resa,
il lasciare mentre prendi,
il chiudere mentre apri,
la costituzione di un millennio
dentro un millesimo che tenta
di farsi strada nella testa.
Stare o non stare
affidandosi a questa schiena rotta
al muso in agguato, alla sottrazione
della vita.
Spazio a dondolo, divulgati nella visione
spremiti la nuca: spremiti
e vieni per dare. Fidati. E vai.
Sarai dove prima ti aspettavi.
Ti aspettavi ed eri il futuro.
Te prima te dopo e te nel trapassato:
noi, nella lingua e nel segno.

*

Oggi più che mai ci viene in faccia
Il fatto che un tempo è tempo
Se lo si strappa. Se lo si suda tra una
Giostra e l’altra. Ogni cosa è scura
Dove il tempo è concesso quasi
Per dispetto, dall’alto di questa vita
Sola, che si fa beffe
Della nostra supplica, del nostro
Non aver scelto, del nostro esserci
Permessi di aver chiesto.
Se la vita la vuoi è il tempo strappato
Il bordo della musica, il covo di un capriccio,
Se il tempo non lo vuoi è lui
Che ruba te, eppure quando arriva
Forse salvifico forse apocalittico
Ti chiedi: ma cos’è mai questo?
Se devo scrivere entro un tempo
Forse
Tutto il mio peso
Non ha petto.
E se devo scrivere e trovare
Questo tempo che non
Cova, che non cede e che non scade, Allora il petto si fa costola
Collo del piede, e decade. Stride sotto
Le scogliere di mia moglie,
Nelle bestemmie per chi
Ha avuto un contrattempo
Non atteso e non richiesto.
Perché quel lembo non è più
Fiato rubato, quando si andava
A far sega dalla scuola.
Non è quel tempo conquistato. È solo
La sua copia, una scena del suo cielo. Telo nero suolo:
Livido cupo e solo. Calpestati allora.
In quella specie di spazio sottinteso
Che dichiara banale la sua danza. Verrà il tempo in cui i tuoi piedi
Saliranno. Ali di un uccello
Dannato, oscuro… e senza affanno!

 


 

Gianni Ruscio è nato a Roma nel 1984. Ha pubblicato diversi libri e con tre di essi è stato segnalato al Premio Montano: Respira, Ensemble, 2016, menzione d’onore al Premio Montano. Interioranna, Algra, 2017, segnalato al Montano. Proliferazioni, Eretica, 2018, segnalato al Montano. Si è occupato di reading e videopoesia. Ha frequentato Lettere alla Sapienza e si è formato come musicoterapista presso la Fedim. Ha partecipato a vari progetti di musicoterapia, alcuni scritti e portati avanti soggettivamente, grazie ai quali ha avuto la possibilità di mettere a punto un suo metodo personale. Oggi è musicoterapista della struttura Antenna 00100 di Nazzano.