Presso i nativi americani, a volte lo sciamano era visitato da una visione, con la quale gli antenati, o le potenze del mondo sovrannaturale, entravano in contatto con la tribù attraverso uno dei suoi membri, per trasmettere un sapere o indicare una direzione da seguire. Quando ciò accadeva, proprio per il contenuto intenso e sconvolgente della rivelazione ricevuta, lo sciamano cadeva in una profonda crisi personale, che lo portava a rasentare l’orlo della disintegrazione psichica; a quel punto, egli allestiva una cerimonia pubblica, con lo scopo di rappresentare di fronte alla comunità la scena simbolica che era apparsa in origine nella sua mente, e si liberava così di un’angoscia dalla quale sarebbe stato altrimenti dilaniato. Credo che anche oggi la poesia serva a salvarsi da se stessi e dai propri incubi; essa assolve una funzione rituale, analoga a quella dei canti e delle danze sacre tra le culture primitive, con la sola differenza che lo spazio in cui si svolge è la pagina. Nel mio caso, l’ossessione primaria che motiva la scrittura è una incapacità irriducibile ad accettare la finitezza: un contrasto di fondo, tra ciò che so e ciò che vorrei, tra una visione materialistica, che mi porta a considerare l’uomo un semplice agglomerato di cellule, e il rigetto per le conclusioni che essa implica. Lacerato da questa forbice, mi sono andato sempre più convincendo che la verità e l’impulso vitale siano tra loro incompatibili: o l’uno o l’altro; ma che allo stesso tempo la nostra specie sia la sola ad aver ricevuto in dote una qualità sorprendente e miracolosa, a suo modo paradossale, che ci permette di amare la vita pur a partire dalla sua mancanza di senso, dimenticando che essa è bene transitorio, accantonando la consapevolezza che tutti i nostri attaccamenti e legami fondino su un inganno, un miraggio, un fiore sull’abisso.


 

 

Quella crepa nel cuore delle cose

Il tavolo, i finestroni, le lampade:
arginano una burrasca,
non sono che barriere
al ronzio che sta salendo e alla nebbia
che cresce, allo sciame che si infittisce.
Una sinistra e una destra: il mondo
si specchia nell’idea che pressappoco
chiunque ne ha e riconosce per vera,
si ripara in queste quattro pareti
dal delirio. Ma tutto può accadere,
tutto! Sento avanzare già lo strappo
nel cartone di alberi e di edifici:
un presagio di crollo, un improvviso
schianto, nell’oscillare
della segnaletica appesa a un palo
così sottile, appena un primo brivido
cala da nord. Lo strano inquilino
che non parlava mai, quello che occupa
la stanza al quarto piano, forse è morto
stanotte. Ma riemergono smorzati
i rumori giù dalla strada; è tardi,
riponiamo con zelo ogni volume
sul suo scaffale in base all’etichetta,
continuiamo ad addizionare gusci
di noce su gusci dentro ad un piatto.

*

Quando è solo

La sera, quando tutti dalla spiaggia
sembrano andati via,
il mare è come assorto
in un lungo monologo ostinato;
il suo volto è velato da un livore perlaceo
e lui
nella sua cella
da millenni
inascoltato tesse
quella sua serrata meditazione
a bassa voce: ogni onda
un pensiero, un passaggio
del suo argomentare lucido e inconcludente;

parla da solo, come i matti,
o sta forse pregando, e quale dio?
Vigila alle porte chiuse
di una questione enorme
come il tempo, come il suo orizzonte,
ma non arriva mai a una soluzione.

*

Roulette

Vivere è anche possibile, a patto
però di una dose di sventatezza:
è il lancio dei coltelli,
è il colpo di carambola,
è il biglietto in omaggio sulla giostra;

è forse il nostro, il prossimo
dei nomi estratti: ma chiudiamo gli occhi
e intanto la galassia, nel suo abbraccio
centripeto, avvinti ci porta
alla polvere dell’arcobaleno.

*

Non era vero niente

Non siamo noi che viviamo ma i nostri
doppi, i nostri gemelli
di riserva, che solo esteriormente
ci somigliano, e a un occhio poco attento.

Il film in cui ci sembra
di riconoscere noi stessi è favola:
libero adattamento di vicende
inventate di sana pianta o svoltesi
in circostanze poco chiare: dubbia
versione che nel suo farneticare
farraginoso un solo testimone
e per di più ubriaco, in un’altra lingua,
balbetta a stento. Vera è soltanto

la trama che sospendono i piccioni
nel vuoto, da un cornicione all’opposto,
la parola che la mano del cielo
scrive e già in pochi minuti cancella,
che non significa niente e bellissima.

*
Ogni giorno felice

Il referto non riporta asterischi:
i superstiti ombrelloni in spiaggia
strappano qualche giorno in più al maltempo,
prima che un anno intero li ripongano.

Ogni giorno felice
non è che una proroga breve, un alibi
con cui rimandiamo il saldo di un debito
che ci portiamo dietro dalla nascita

con tutti i rigattieri della città
e con la sconfitta
delle loro botteghe in disarmo;

si concede la mantide, di tanto
in tanto, una momentanea
pausa, mentre ci mastica.


Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive a Verona, dove si è trasferito da una decina di anni circa per insegnare. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali “Nessun mattino sarà mai l’ultimo” (Zone, 2008), “L’assedio di Famagosta” (Lietocolle, 2015), “Calypso” (Oedipus, 2016); “Il talento dell’equilibrista” (Ladolfi, 2018), “I masticatori di stagnola” (Lietocolle, 2019), “Il giardiniere cieco” (Transeuropa, 2019), e l’ultima, “Farsi amica la notte” (Ladolfi, 2020), da cui sono tratti i seguenti testi; per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.