MONTANARI DELLA POESIA DICE
Dico di non saperne di più di chi con la poesia non ha dimestichezza e nemmeno desidera acquisirne. Di definizioni sono piene le fosse. Di pareri ne circolano fin troppi, specie se non richiesti. Pertanto, assodato che al pari di qualunque altro argomento/oggetto che implichi un giudizio soggettivo (un quadro, un piatto, una faccia, un corpo, un divano, un film, un paio di scarpe e avete capito cosa intendo) anche la poesia, tolto l’etimo, dovrebbe, per grazia ricevuta, essere esonerata dall’obbligo di dover rientrare in un contenitore dizionaristico di esclusivo interesse degli addetti ai lavori. Ritengo sia un esercizio leggermente sterile e pesantemente ambizioso.
Più che “cosa”, meglio chiedersi “dove”. Le orme lasciate dalla poesia sono ovunque, ma lei si fa preda solo per chi è a caccia e ha veramente fame. Credo si scriva poesia con gli occhi, prim’ancora che con la mente, la parola e le dita. Fare poesia diventa filmare immagini, comporre suoni, accostare colori. Ma anche altro. Nel senso di altro che non sia puramente artistico. Produrre nutrimento (come fare il pane), vita (piantare semi e pazientare fino a che germoglino), empatia (trovare la sintonia per comunicare con un figlio) e coraggio (nella denuncia e nel rifiuto delle imposizioni). Insomma, le fonti di emozioni sono ovunque si riesca a guardare con umiltà e sorpresa. Attingere a esse significa concedersi il tempo e lo spazio per la bellezza. Non quella sguaiata dei canoni estetici, ma quella discreta, imbastardita dalle salvifiche contaminazioni del quotidiano. L’ “ispirazione” è “inspirazione” di tutto lo scibile che ci circonda, ci smuove, ci rende animali dotati di intelletto e forse anche di qualcos’altro.
E poi “perché”… Perché c’è poesia? C’è come tutto il resto, come tutto ciò di cui si può aver bisogno e come tutto ciò che è inutile o che ci lascia indifferenti.
“Come”… in base alla propria sensibilità, unica vera voce in capitolo. Ma soprattutto in maniera inspiegabile e inspiegata, necessaria perché innata. La poesia della verità e la follia lucida sono sorelle, è questione di mancanza di un recettore, chi non lo possiede è investito da un flusso di stimoli esterni che non trova filtri nel cervello. Ce lo dicono le neuroscienze, ascoltiamole. Il risultato è che ci sono vocaboli e vocaboli, immagini e immagini in poesia, ma pochi sono quelli che fanno vibrare corde insolite e stupefacenti, molti quelli carini, azzeccati, persino belli, senza il dono dell’anima.
“Quando”… prima che sia troppo tardi, prima che ci si abitui alla fretta, alla corsa, alla disattenzione.
E infine “chi”… Chi è poeta? Fondamentalmente chi non sa fare o non può fare altro.
Diffido della poesia che non profuma di bella persona. So che non è opinione corrente, molti sostengono che occorre distinguere la vita dalla letteratura. Per me non è possibile, ci ho provato, ma non mi riesce. Dietro una grande poesia dev’esserci sempre un grande essere umano, non basta e non serve un nome altisonante. Per questo uso i versi per fiutare sulla carta chi li ha scritti. Quando incontro poeti, solo dopo averli annusati decido se leggerli. Quanto ai morti, beh, vado a intuito.
Per quanto mi riguarda, scrivo perché non mi costa fatica, la vita è già abbastanza faticosa in sé.
LA POESIA DI MONTANARI CI DICE
da Arsenico e nuovi versetti, La Vita Felice, 2013
papa…
alla fermata dell’autobus
l’attesa si prolunga,
per terra c’è un profilattico esausto
e io m’interrogo sull’utilità del papa.
sì, papa con la minuscola
perché il rispetto non è grammatica
il paperone in mitria impartisce dal deposito degli orrori
inaccertabili benedizioni farcite di bocconi reazionari
i roghi sono spenti,
ma l’aria ricorda ancora l’odore stucchevole delle carni arse
e resta aperta la caccia
alla strega che vuole abortire,
al prete eretico che chiede moglie,
al perverso che si accoppia contro natura,
a quella diavoleria di lattice che ostacola l’epidemia
il capobranco e la muta di cani in gonnella
terrorizzano le pecore ingozzate di paure e colpe,
abbindolate con promesse eteree,
impalpabili,
pronte a esplodere come dogmi di sapone
in verità vi dico…
la domenica mattina è fatta per dormire
e non per lo shopping al Supermarket del Buon Pastore
tirati a festa, con in tasca la lista dei peccati
il paradiso è un morso in un tartufo d’Alba
il purgatorio, il risveglio dopo una sbornia
l’inferno, il frigo vuoto
la giustizia
ce la siamo giocata in eterno
dio – o chi ne fa le veci
è affar mio
affar nostro
affare di donne e uomini in croce
in cerca di pace.
*
Da Anatomie comperate, WhiteflyPress/Vague Edizioni, 2018
Simmetrie serali
Mio padre non si sedeva per non morire
mia madre morì per potersi sedere
i fratelli vivevano per uscire
i gatti uscivano per sopravvivere
i sessi s’incontravano per dialogare
io mi sedevo, sopravvissuta alla cena
e dialogavo con gatti
che facevano sesso
in segno di rispetto.
*
Inedito
Io e io e io e lei
Sono membro di un club per ipodotati
civilmente calvo, signorilmente obeso
un tipo tetro ma non troppo
un’allitterazione contrita.
La mia settima moglie mi sta lasciando.
Malato di dissenso e di dissenteria
iperattivo da divano
ostaggio in tempi di pace
inebriato dal porno teutonico
sudicione alienabile, narcolettico indulgente
ho chiesto alla mia settima moglie, perché?
Patentato ma non idoneo alla guida
per aggressività autolesionista
dilatato quanto il cosmo in sala parto
ridotto con fierezza a stereotipo anale
ostile al sesso come alla sua assenza
nemico dei fiordi, dei grilli e dei pic-nic domenicali
la mia settima moglie mi ha risposto, cosa?
Nell’atmosfera assatanante degli spogliatoi
nel rovescio dei pantaloni
in un principio di lebbra
tra le corde scorsoie di un’arpa
nella tana di un gatto titanico
nel mondezzaio del peep-show-business
ho domandato alla mia settima moglie, da quando?
Inguaiato tra realtà e fantasia
vittima di omicidi macrobiotici
bisognoso di uova e tenerezza
nero come un sapone ideologico
colmo di sperma e vuoto di abbracci
la stramo, l’abramo, la ricamo
e imploro la mia settima moglie di dirmi
da dove è partita la crepa?
Ti distrai un attimo
e l’amore s’incrina.
Dello spacco, resta solo il muro.
DICONO DI LEI E DELLA SUA POESIA
Dante Maffia su Oltraggio all’ipocrisia (Lepisma, 2012).
Gabriella Montanari sembra avere assorbito la lezione di molti, prima fra tutte quella di Whitman e poi della Beat generation, di Evtuscenko e di Bukovskij, insomma, degli irregolari, di quei poeti che sono usciti dal solco clamorosamente perché annoiati dalle ripetizioni di un catechismo poetico privo di mordente. La Montanari tuttavia non è appendice di nessuno e tanto meno nipotina, epigona di una qualche scuola: ha saputo macerare le varie esperienze fino a trovare un suo personale linguaggio e un suo particolare mondo in cui a contare è innanzi tutto la libertà. Infatti, si esprime senza veli, con nettezza, evidenziando nel suo dettato la forza di chi ha fede nella poesia perché la ritiene capace di portare messaggi profondi che possano finalmente portarci nella magia della conoscenza vera.”
Davide Rondoni su Si chiude da sé (Gilgamesh, 2016).
“In questa poesia o diario sventrato, bambinesco e funebre come sanno fare solo alcune rare poetesse, il lettore si potrebbe perdere, quasi ipnotizzato e tutto sommato riparato in un genere di immaginario psico-poetico che – d’importazione – ormai vive, se pur raro e mai con questa intensità, anche tra le poesie odiernissime italiche, magari impastato in cosucce da Slam o performative. Invece qui la zannuta poetessa, che pur sta a lungo al riparo in questo folto di gorgo elencatorio e autoepico, quasi in una nube di magie per incantare i suoi lettori o spasimanti, e mettendo su maschere (una lirica violenta è pur sempre una lirica), ecco talvolta colpisce, e ferocemente. Abbranca la vita al livello in cui si fanno i conti con il destino, lo fa con la consapevolezza perfetta e casuale dei bambini, la serietà assoluta delle bambine. Qualche critico di quelli che corteggiano questa poetessa dovrà prima o poi scrivere qualcosa sul “bambinesco” in G.M. e piantarla di vedere in lei solo un Bukovskij in gonnella di Lugo di Romagna. Perché la faccenda è più inquietante.”
Enrico Nascimbeni su Abbecedario di una ex buona a nulla (Rupe Mutevole, 2015).
“Emozionata di emozionare. Scrittura fluida. Con contaminazione non celata con la Beat generation. La cara amica Nanda Pivano le avrebbe forse detto come spesso diceva in un innamoramento di versi: Tradurrò in italiano il tuo italiano. Questo viaggio sulla strada della poesia dell’autrice è un gran bel viaggio. Scritto con arte e di arte dipinto. L’assenza di autocompiacimento e immensa disperata autoironia sono le credenziali di questo abbecedario. Nulla da invidiare a Ferlinghetti o Corso. Anzi. Semplicemente una continuazione e un ampliamento che spesso supera i loro apparenti deliri. Eh sì. Altro che francesismi e snobettona. La Montanari è una grande poetessa. Fragilmente risoluta. Coinvolta fino all’ossessione nel suo distacco dal mondo. Artista che ti presenta il conto del sogno. Che lei ha già abbondantemente pagato. Mancia compresa.”
MONTANARI E I POETI “INFLUENCERS”
Mi auguro che la mia scarsa propensione a leggere poesia e poeti (specie se contemporanei) non venga scambiata per presunzione o, peggio ancora, per superbia. Semplicemente, non sono il mio bacino di predilezione. Durante gli studi universitari, in passato, e nel lavoro di editore, attualmente, ho dovuto e devo confrontarmi con la poesia e, sinceramente, mi basta. Leggo opere di poeti scrittori, ma quasi mai le loro poesie, preferendo i loro racconti, i saggi, le lettere (quelle che prediligo, in assoluto), le interviste, i romanzi. Questo vale per Bukovskij, Brodskij, Pavese, Vian, solo per citarne alcuni. Mi stimolano molto i diari e gli epistolari degli artisti (pittori e scultori del passato), ma soprattutto gli scritti (senz’alcuna velleità letteraria) dei pazienti manicomiali spesso custoditi nelle cartelle cliniche conservate negli archivi degli ex ospedali psichiatrici. Il racconto o la testimonianza di un delirio o di un’allucinazione rappresentano un vero e proprio arsenale lessicale e immaginifico di rara potenza e originalità. Poi adoro imparare dai saggi di storia (soprattutto medievale) e di scienze (botanica, zoologia e anatomia). Ecco, storia e scienza, intese rispettivamente come consapevolezza del passato e conoscenza del presente/prospettiva per il futuro, mi affascinano e mi nutrono molto, sono il serbatoio creativo da cui finisco per attingere sempre più di frequente. Il mio non-poeta preferito, nonché maggiore influencer, è Alexander von Humboldt, un grande naturalista e geografo tedesco della seconda metà del ‘700. Ma se proprio volete nomi dell’”ambiente”, posso dirvi che, oggi, leggere versi di Dante Maffia, Fernando Lena, Mira Yara Toledo, Ivano Ferrari e Filippo Strumia, m’induce piacevolissime sinapsi e qualche gradito colpo al cuore. Poi anche certi (ok, alcuni, pochi, rari) testi di rap o trap, a cui le mie orecchie sono quotidianamente sottoposte, mi colpiscono per i giochi di parole arguti e per la dolcezza dissimulata sotto quattro dita di volgare slang. O i dialoghi dei film…alcuni si sono fissati nella mia memoria al pari delle più celebri terzine dantesche. Credo che meno si è guidati dal faro della poesia già scritta e già detta, più possibilità ci sono di forgiare il proprio mondo espressivo e tematico. Ribaltando la domanda, mi piacerebbe essere influencer per i giovani, i ragazzini. Altro che reading davanti a un pubblico (spesso) di mummie! Niente in confronto all’adrenalina che provi in una classe di adolescenti pronti ad addormentarsi se non riesci a far breccia in 50 minuti nel loro cervello e nella loro emotività sconquassati dalla tempesta ormonale. Trasmettere esperienza di vita, confessarla, confrontarla, e poi, solo poi, presentarla in veste poetica, questo ha davvero senso per l’avvenire della poesia. Senza voler per forza insegnare (maledette siano tutte le scuole di scrittura e il loro impietoso formattare le penne!), ma accompagnando, perché tanto, alla fine, è bene che ognuno segua la propria strada.
A Gabriella – sapendo di farle dono gradito – e ai lettori di larosainpiu, i versi di Dan Fante da Gin & Genio Poesie scelte, traduzione dall’inglese (USA) di Gabriella Montanari, ed. Whitefly press.
Il bisogno
è
un urlo folle e disperato
proveniente
da
un luogo
lontano
da Dio
Gabriella Montanari (1971, Lugo di Romagna). Italo-francese, laureata in Lettere Moderne all’Università di Bologna e diplomata in Pittura presso la Scuola di Arti Ornamentali San Giacomo di Roma, è poeta, scrittrice e critica letteraria. Ha insegnato lingua e letteratura italiana, tecniche pittoriche e lingua francese all’estero e in Italia. Editrice, traduttrice di poesia e narrativa dal francese e dall’inglese, collabora con riviste letterarie, di viaggio e d’arte. Dopo vent’anni di vita e attività all’estero (Belgio, Francia, India, Cina, Togo) risiede attualmente a Torino.
Esordisce in poesia con Oltraggio all’ipocrisia per le edizioni Lepisma di Roma (2012, Prefazione di Dante Maffia), a cui hanno fatto seguito Arsenico e nuovi versetti (La Vita Felice, Milano, 2013, Prefazione di Lino Angiuli), Abbecedario di una ex buona a nulla (Rupe Mutevole Edizioni, Parma, 2015, Prefazione di Enrico Nascimbeni) e Si chiude da sé (Gilgamesh Edizioni, Mantova, 2016, Prefazione di Davide Rondoni). Pubblica per Supernova di Venezia (2016, Prefazione di Carla Menaldo) la raccolta di racconti, Donne di cose e per Danilo Montanari Editore (Ravenna), il libro d’arte Reattivo di Valle (poesie e fotografie) con acquarelli di Sergio Monari (2017). L’ultima silloge poetica, Anatomie comperate (interventi critici di Elio Grasso e Dante Maffia) è edita da WhiteFly Press/Vague Edizioni (Torino, 2018).
Suoi componimenti, racconti e saggi sono presenti in antologie italiane ed estere. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti in premi e concorsi letterari nazionali e internazionali (R. Farina, Torresano, Montano, Gozzano, Don Di Liegro, Firenze Film Corti, Bologna in Lettere, Alda Merini, Versante Ripido, Città di Como ecc.).