Ho l’aspetto della brava ragazza.
Io scelgo quello che voglio subito, non quello che voglio
veramente.
Io preferisco il principio di piacere al principio di
realtà.
Poi quando mi trovo col culo per terra improvvisa-
mente ogni cosa diventa limpida. Il dottore mi ripete:
«lei ha le pezze al culo, ingegnere».
1 gennaio
Buon Anno.
In queste sedute frontali non riesco a guardarla negli
occhi.
Mi manca tanto leggere. Io mi sforzo ma non ci rie-
sco, non riesco a trovare concentrazione. Può aiutar-
mi? Mi manca davvero tanto.
Ieri avrei voluto chiamare i miei per dire che li amo
e chiedere di riprendermi, fatemi del male ma non ab-
bandonatemi.
Alla fine, ho scritto.
Ho ventisei anni.
Li ho uccisi ma non ho ottenuto alcun risarcimento.
Io voglio un risarcimento.
Come posso fare?
Ho dodici anni.
Siamo su una nave affollata, il mare è grosso ma il
cielo è bello. La nave ondeggia pericolosamente. Mi
nascondo sotto una scialuppa di salvataggio, sto ran-
nicchiata. La gente cade in mare, sotto questa scia-
luppa siamo in due, un uomo è dietro di me. Anche
lui si bagna, stranamente io no, io resto asciutta.
L’uomo ammazza la donna e i figli. I soldati inglesi
pestano a sangue i ragazzini iracheni. Le bambine
coreane nel giro della prostituzione vengono vendu-
te come vergini e durante l’amplesso infilano nella
vagina pezzi di plastica taglienti. È l’alba.
Ho ventisei anni.
Ho la gamba destra dolorante che mi impedisce di
camminare. Ci siamo azzuffate. Mi hanno fatto male.
Ho fatto loro male.
È visibile, chiaro, reale.
È difficile non poterlo nascondere. È crudele.
Finalmente.
Posso iniziare a guarire ora che le ho picchiate.
Ho zero anni.
Perdo i denti, provo sgomento ma non li ho persi tut-
ti, solo alcuni e quelli persi benché posticci possono
essere reinseriti nei buchi delle gengive.
Sono gravida e partorisco molto rapidamente, senza
dolore. Mi stupisco, la nonna mi raccontava di quan-
to fosse spaventoso mettere alla luce un figlio, mia
madre ha avuto due cesarei. Il mio bimbo è un ma-
schio e già parla.
È strano, appena nato sembra abbia un anno e
mezzo mentre avevo già una figlia più grande che è
ancora in fasce. Non amo quella bambina, non l’ho
cresciuta, non me ne sono occupata. Le mie atten-
zioni sono per il maschio che in effetti è bellissimo
e bravissimo mentre l’altra è così gracile e minuta.
Non mi spiego perché se ho avuto prima la femmina
il maschio sia più grande e già parli.
Capisco che me l’hanno sostituito, non è figlio
mio, forse non ho nemmeno avuto un secondo parto,
mi sento un mostro per non aver badato e accudito la
piccola. Lei non è morta ma è come se fosse destinata
a non crescere più, destinata alla disperazione perpe-
tua. Lei è la mia vera figlia.
Ho ventuno anni.
Sono Pandora, il lupo nel vaso, la carcassa marcia e
l’acqua. Corrotta e bastarda.
Ora che sanno che non ho più paura di fargli male,
hanno paura loro.
Non voglio più che mi si dica quanto sono sbagliata e
quello che devo fare. Non voglio più che quanto met-
to in atto mi venga rinfacciato: se va bene il merito
altrui, se va male la mia inettitudine.
Corrotta e bastarda.
Ho ventiquattro anni.
Tutta l’arte è contemporanea, l’ho letto su un muro di
Berlino.
Negli spazi dell’incertezza entra il dubbio della con-
dizione umana.
Un testo teatrale sempre costruito con un’altalena di
elementi emotivi. Effetto formicaio, alveare. Essere
spietati. Io sono il confessore dei miei personaggi di-
ceva Eduardo, il Dottore.
16 maggio
Corrispondenze tra cervello e intestino.
Travaglio dell’identità.
Ricerca e consolidamento della propria identità.
Ho venticinque anni e posso diventare simbolica fino
all’atomo.
27 maggio
Quando me ne sono andata di casa i miei si sono te-
nuti tutto. Anche i vestiti, per mesi. Dal pc alla mac-
china fotografica che mi aveva regalato Aldo. Tutto.
I libri. La musica. I quadri. Ne ho portati via un paio.
Tenevo molto a un quadro in particolare che mia
madre ha detto: «ti rubo». Dei vestiti avevo bisogno.
Anche le pinne si sono tenuti, e la maschera. Anche
l’abito da sposa ha voluto mia madre.
Mia madre mi aveva detto che voleva tenersi tutto
perché così le sembrava che non fossi morta.
2 agosto
Mi salva mio padre. Il mare è brutto e grosso, mia
zia sta nuotando al largo. L’ho seguita di nascosto.
Quando se ne accorge cerca di spingermi a riva col
risultato che mi schiaccia sott’acqua. Mi prende la
testa con la mano e io vado sotto, è terrorizzata. Pen-
so che sto affogando. Arriva mio padre, non ricordo
come, mi porta sulla terra ferma. Sta piovendo.
Resto in acqua fino a che non sento più i polpastrelli.
La caviglia sta guarendo.
3 agosto
Da quando mi sono ammalata un anno fa non avevo
più dormito, ora sto dormendo.
Voglio vivere al mare da aprile a settembre.
Leggo un libro al giorno, circa duecento pagine.
Ho già letto Fuochi e Colpo di grazia della Yourcenar,
ho quasi finito Pierrot mon ami di Queneau, il primo li-
bro di Notre Dame de Paris di Hugo. Oggi piove e temo
di finire troppo rapidamente. Ho con me anche Alle
prove con Stanislavskij. Il Faust non l’ho letto nemme-
no io, dunque se riusciremo a beccare una libreria lo
acquisterò. Dimenticavo, il Tristano di Mann in tra-
ghetto.
Ho spesso il mal di pancia. Se il gastroenterologo mi
dice che non ho nulla sarà ansia.
Devo proprio darle lo Strappacuore perché potrebbe
aiutare con la lettura qualche altro paziente, Dottore.
Biblioterapia, biblioanalisi.
11 agosto
Quando ero piccola ero così timida che nascondevo
tutta la faccia in un passamontagna. Rosso. Vivo.
Ho ventisei anni.
Non ho più voglia di fare l’amore con lui o vorrei far-
lo con un altro e lui con un’altra.
La sua ex viene a vivere con noi e divide con me
una cameretta di due lettini.
Quando lui vuole fare sesso viene nella stanza e
sceglie.
Passa molto tempo. Rifletto sul fatto che riesco a
dormire in un letto da sola e per me è una conquista.
Siamo nella nostra nuova casa ma è addobbata
per i bambini, una di quelle case di bambola nordi-
che, kitsch.
Ho ventinove anni.
Mi sono rotta i coglioni.
Cosa significa riconoscersi, me lo spiega?
E se tutta questa mongolfiera ridicola che è la mia
irresolutezza fosse solamente la mia sostanza? Una
piccola strega e la benedico. Saltellando da un piede
all’altro. In attesa di cosa? Qualcosa arriva. Una ma-
lattia, un sinistro, ah, dottore. Il bambino è un mago in
attesa di magia.
Continua a farmi tenerezza il ragazzo del giovedì,
quando non esce assorto, incerto, inquieto, istupi-
dito, e in questo caso tace. Fa una mezza battuta, si
trascina all’uscita sempre incerto, come se dovesse
tornare indietro a dirle qualcosa, lo sa?
Gliel’ho già detto che i cani e i bambini mi si avvici-
nano.
Forse dovrei scegliere le parole invece ho quest’an-
sia di riempire i vuoti, i silenzi. Lei dice che il silenzio
avvicina.
Voglio fare il guardiano del faro, ho mandato il cur-
riculum.
Marco Giovenale, da “Adesso tra mille anni”, postfazione al libro.
Se un’autrice o autore può e deve far esplodere la forma romanzo o più in generale la narrazione, questo è il caso, forse.
Così non si trova qui un racconto ma più corone di schegge, che fissano o spillano (nella doppia accezione) segmenti di dolore o piacere-dolore in aspetto di diario. Tenuto dal sonno stesso, o relativo a una fase rem che non è solo “Rapid Eyes Movements” ma – si direbbe – anche l’accusativo latino di “cosa”.
Se la materia sofferente-sofferta non toccasse il fondo di identità con la pietra, se non si oggettivizzasse, magari in un qualche silenzio estremo, un bianco, il foglio, difficilmente i cristalli che la abitano farebbero parola.
1.
[…] Perché non si tratta solo o affatto di riferire ma semmai di ri-ferirsi per consumare il taglio della lama. Raccontare al bianco, senza un orchestrante, senza presenze, anzi proprio diffidando del concetto stesso di presenza. (È inevitabile, fin dal principio. Detto al dottore: «L’ho capito che non vuole gli porti la mia analisi scritta ma io non riesco a parlare»).
Allora: non un Io presunto bensì un più indifeso soggetto va svuotandosi e redigendo pagine e appunti per il recalcitrante analista, essendo quest’ultimo meno personaggio stagliato che persona, ovvero maschera ed eco della sofferenza stessa. Terapeuta e trappola. (Oltre un secolo fa si poteva indicare tèraps come, etimologicamente, “aiutante, compagno, servitore”) […].
2.
Il flusso verbale, segmentato e teso, giustamente incurante dei soprassalti del lettore, abbandona o allenta ogni idea di coerenza temporale. Lascia affiorare e disegnarsi – soprattutto nelle prime parti del libro – i ricordi come sogni, i sogni come ricordi, nei loro legami latenti o palesi con la sessualità e l’aggressività, senza – spesso – definire cosa è sogno e cosa memoria. Il promemoria all’analista diventa in questo modo un resto di buio, rispettato come tale: quel trapestio confuso e non regolabile che si produce sull’orlo dell’inconscio. (E che non è immediatamente possibile verbalizzare, mettere in [viva] voce, pena la sua scomparsa sotto la cortina dei sintomi). Ogni volta la scena raccontata, l’episodio, il sogno, si propone come chiave o comunque esposizione significativa di un evento circoscritto, senza che la porta che dovrebbe spalancare si apra veramente […].
3.
Complicato? Doloroso, e – in alcuni punti – estremo. Del resto, è noto: la normalità non scrive. Si potrebbe obiettare: ma la normalità non esiste. No. Esiste eccome, e pretende anche di far fuori chi scrive. Anzi tenta di scrivere al posto suo: a un certo punto il dottore domanda «“Cosa intende fare del suo ruolo sociale e in che direzione intende profondere il suo impegno?”». Ma chi scrive respinge l’interrogativo (l’interrogatorio?) dal principio: «“Io, per adesso, voglio scrivere”», «“Nulla di definitivo, nessuna progettualità a lungo termine, sto a guardare dove mi porta, invece di stabilire una meta. È sciocco? Immorale? Controproducente?”», non importa, non è la normalità dei progetti e del «definitivo» a contare. Segue, nel testo (che apre il capitolo III), una normale lista di autrici e autori che tutto hanno tenuto tranne che una condotta dotata di un «ruolo sociale» e un relativo «impegno profuso» nella giusta «direzione». «La scrittura è una malattia mentale. Scrivo e passa tutto. Passano fame, sete, stimolo della pipì» (p. 183). Chi sono i malati allora?
4.
Le stesse datazioni dei frammenti testuali che si susseguono nel libro sono un esempio di sfasamento tra dato sociale, ancorato, legale (chronos) e momento irrecuperabile, slittante, opaco (aion). Sei volte l’indicazione data dalla pagina dice «Ho zero anni». Tre volte dice «Ho mille anni». Molte volte inoltre la datazione (in tempo infantile) non è congrua con gli eventi narrati (relativi all’età adulta). E se il sogno interviene a schiarire il disallineamento, non lo “spiega”, semmai lo mostra in atto (show, don’t tell), riferendo così di un più generale scollamento del reale dal sensato: cosa che, come è noto, a sua volta produce senso. Con un piccolo gioco di parole si potrebbe parlare non di datazioni ma di detonazioni. Come può accadere con l’ultimo testo del capitolo II: «Ho zero anni. / Perdo i denti, provo sgomento ma non li ho persi tutti, solo alcuni e quelli persi benché posticci possono essere reinseriti nei buchi delle gengive. / Sono gravida e partorisco molto rapidamente, senza dolore. Mi stupisco, la nonna mi raccontava di quanto fosse spaventoso mettere alla luce un figlio, mia madre ha avuto due cesarei. Il mio bimbo è un maschio e già parla. / È strano, appena nato sembra abbia un anno e mezzo mentre avevo già una figlia più grande che è ancora in fasce…» […].
5.
La vicenda puramente narrabile è quella di una madre distruttiva che ha bisogno della figlia come vittima; un padre distaccato distante assente; la soluzione o scioglimento nella «zuffa» (termine ricorrente) che disincaglia le energie e permette alla figlia di ritrovarsi, attraverso una benefica uccisione simbolica della madre (la quale sembra prendere botte assai reali, però, per fortuna!). Sono tuttavia gli interstizi della vicenda, le spie testuali, i grumi di storia non lasciati al resoconto, a permettere di aprire altri spiragli, letture ennesime. E a sottolineare il valore letterario evidente del libro, fin qui esposto sotto diverse luci è […].
Paola Silvia Dolci, nata e residente a Cremona, è ingegnere civile. Si è diplomata presso il Centro Nazionale di Drammaturgia. È armatrice e comandante dello sloop Noix de Coco. Collabora con diverse riviste letterarie. È traduttrice, e direttrice responsabile della rivista indipendente di poesia e cultura «Niederngasse». Ha pubblicato: Bagarre – Lietocolle ed., 2007; NuàdeCocò, Manni ed., 2011; Amiral Bragueton – Italic Pequod ed., 2013; I processi di ingrandimento delle immagini – Oèdipus ed., 2017; bestiario metamorfosi – Gattomerlino Superstripes ed., 2019; Portolano – Mattioli1885 ed., 2019; Diario del sonno – Le Lettere ed., 2021.
Copertina libro di Manuel Scrima