Nota ai versi di Filomena Ciavarella
a cura di Pietro Romano
Il canto poetico ritesse la trama dei possibili e armonizza l’io con il cosmo. Nella poesia di Filomena Ciavarella l’io poetante è sempre proteso oltre quei limiti spazio-temporali validi a circoscrivere il confine tra visibile e invisibile. In tale senso, la natura assume connotazioni quasi materne, idealmente incarnate nell’immagine dell’«usignolo dalle ali invisibili», il cui volo sintetizza la trasmutazione delle forme in parola e così la correlazione tra i processi di vita e morte:
L’usignolo dalle ali invisibili
mai ruba le rigogliose foglie,
vivere le lascia con lo strazio
nell’anima
Accarezza le sacre piume
e si mischia con l’aria del mondo
Intravvedere la trama del tutto
è il frutto dell’annullamento dell’io
Ogni figura prende forma nell’altra
in giunture infinite
La lingua lascia sorgere il sogno
e consegna il fuoco sacro
alla parola
La visione prende forma
nel cartiglio dell’ignoto
Meraviglia delle meraviglie!
Chiara è l’acqua che scorre
nella cruna dell’ago
Il divenire in cui le cose scorrono presiede, nella poesia di Ciavarella, al movimento ciclico che le fa nascere e morire. A questa circolarità nella quale la poeta ravvisa le trame del tutto è legata la continuità dell’acqua, immagine archetipica per eccellenza, qui rappresentata mentre fluisce nella cruna dell’ago. Questa raffigurazione assume un valore metapoetico: l’ago sta alla lingua come la visione alla parola. La poesia figura come luogo di metamorfosi, dove i possibili sono conciliati nell’aspirazione costante all’assoluto. Quello di Ciavarella è dunque un canto immerso nella contemplazione dell’ignoto, spazio che raccorda il visibile all’invisibile:
Il musicista invisibile
Stava fra foglie che precipitavano
al cader della sera
da alberi noti
Era l’usignolo che cantava
nel delta del cuore
Sospirava all’ombra fra onde impercettibili
e intoccabili
L’eco dell’esistenza folgorava la nebbia
delle altezze
in forma di musica che insanguinava
bellezza
All’ombra della sera percepiva il suono
che nasceva dall’ignoto
Ogni filo d’erba illuminava la splendida
e terribile transizione della luce
Fra accordi di bionde spighe di grano e
di fiorellini che persi d’amore
l’orizzonte ferivano
Era un trasumanar di anime
Incomprensibile bellezza di petali leggeri
nell’addio
che il profumo dell’uva dolce portava
alle tempie
mentre la vite baciava l’invisibile tralcio
dell’esistenza
I vestiti della transizione erano fuoco
nella notte
E affiorava la perduta beltà fra eterne
onde-mare che ritornavano
Nonostante la ricorsività degli addii e gli incrinamenti della storia, la transizione, ovvero la metamorfosi, è l’unico dato costante, che replica la vita e la riannoda alle trame degli eventi. L’immagine del fuoco è simbolo eracliteo del divenire, cui Ciavarella accosta uno scenario notturno, associabile al caos da cui origina la forma. L’armonia che governa l’universo è dunque frutto di quella stessa ciclicità che conduce i venti dell’esistenza e innerva la tensione della poeta verso il mistero della caducità:
La rosa fiorisce senza un perché
e va via nel il tramonto del sole
fra le braccia fredde della notte
che il suo sonno a sé rapisce
in un atto di fede
Avventuriera sulle fauci del sogno
Dorme con la forza dell’abbandono
Tesse da lontano ancora splendidi
tappeti volanti e racconta storie
Inseguendo la luce che di sé
l’innamora
Il mistero che ammalia gli occhi della poeta fornisce a quest’ultima un’ulteriore constatazione, ovvero che il «fiume cielo» non ci appartiene. Di qui l’invito all’accettazione della precarietà come elemento costitutivo dell’esistenza in virtù del quale tendere lo sguardo sempre all’alto e alla perennità della vita che, malgrado tutto, si rinnova:
Le stanze che mi abitano
sono di malta immateriale
bastioni rarefatti in luce chiara
Dove in ogni croce l’allodola
è eterna cercatrice d’oro
nel fiume cielo che non ci appartiene
Il fuoco come immagine di un logos arazionale rispetto al quale anche la parola poetica stessa si rivela insufficiente ricorre costantemente nella poesia di Ciavarella. Quest’ultima, peraltro, appare talora attraversata da fremiti e sussulti che tradiscono un vero e proprio corpo a corpo con il bianco del foglio:
A filo di fuoco la parola è cifra
d’ignoto
è il testamento della rondine
che scrive al sole strani accordi
con le sue zampette ventose
leggere e profonde
sul rarefatto spartito del mistero
È Il pane più buono per gli uccelli
del cielo
e il cibo più adatto per i fiori
in amore della luce
È la lotta impari del foglio
bianco sulla fiamma viva
Nel bianco del foglio si invera infatti un varco di possibilità infinite, attraverso cui l’occhio della poeta può davvero avvicinarsi al fuoco e quindi intenderne le capacità rigenerative.
La natura si squaderna agli occhi di Ciavarella come fogli di un unico spartito dal quale si levano preghiere e usignoli destinati al canto della ciclicità:
Tu sei pianta che si porta fra le foglie
il fragore infinito del mare
e la sua metamorfosi
Rapita alla scogliera
Ora sei verde viva in un quadrato di luce
È preghiera nel sole il tuo dogma
È il fiore appena sbocciato
Benedetto dal giocoso gorgheggio
dell’usignolo
che nei suoi piccoli petali d’infinitesima
bellezza mortale
Sta bene così
Di questa visione la morte non è nemica, ma alleata: essa, come la vita, testimonia il mistero che permea ogni occhio umano sul mondo. Peraltro, a dimostrazione della costante aspirazione all’assoluto, non di rado Ciavarella affida agli uccelli la funzione di connettere il mondo della parola a quello della visione, quasi in sé preservasse intatto il sogno del volo:
Rondini dalle ali di fuoco accendono il sogno
e sostengono le palpebre dal sonno rapite
così siano amiche nel transito alla nuova
nascita in un trasumanar indistinto
Dove le foglie tremule nel mistero
Inseguono ventose il cielo
e ogni ramo sussurra con l’altro
in un giocoso movimento
come usignoli in amore
Addormentarsi è lo specchio
del passaggio sul grande carro
dove lieve è cadere nel vento
fra le foglie che non sono più
Filomena Ciavarella è nata nel 1965 a San Nicandro Garganico in Puglia. Insegna filosofia e storia presso l’IISS “De Rogatis Fioritto” della sua città. Ha pubblicato la sua prima silloge poetica nel 1988: “Pensieri” Cultura Duemila Editrice. Nel 2017 pubblica con Interno Poesia “Tra terra e cielo”. Con la stessa casa editrice ha curato e tradotto con i suoi allievi le “Elegie al Futuro poeta” di Nguyen Chi Trung – 2018. Ha partecipato nell’ottobre 2019 al Festival internazionale di poesia a Olhao in Portogallo, dove nei “Cadernos A Sul” sono state pubblicate alcune sue poesie. Ha curato la prefazione del poemetto “Venti” di Nguyen Chi Trung, pubblicato in Portogallo. Ha tradotto poesie di Emily Dickinson, Dylan Thomas, Sylvia Plath e John Butler Yeats. È membro del Movimento internazionale delle culture e delle arti Ciesart di Barcellona. Ha pubblicato “Versi per l’invisibile” con Transeuropa Nuova Poetica 2020. Alcune sue poesie sono state tradotte in spagnolo da Emilio Coco sulla rivista Altazor.