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Fernando Lena – Black Sicily, Edizioni ArcipelagoItaca, 2020

Avevo avuto modo, qualche anno fa, di curare un incontro con la poesia di Fernando Lena che avevo apprezzato, convinta che avrebbe avuto ulteriore sviluppo. Questo libro me lo ha ampiamente confermato. Black Sicily è l’evoluzione della poetica leniana che non attinge né alla dissoluzione dei poeti maudit né alla trasgressione sintattica del postmodernismo, ma adotta il registro della pietas rivolta ad un presente che affastella la realtà coeva e la nostalgia per ciò che è stato perso nel tempo. Black Sicily: sappiamo, perché ormai gli anglicismi sono entrati nel linguaggio omologato, che black vuol dire nero, ma quante accezioni possiamo cogliere nell’aggettivo black, nel quale gli anglofoni inglobano tanti significati quanti ne possono stare nel senso che vogliono attribuire a quello cui si riferiscono? Oscuro, malvagio, demoniaco, luttuoso… nero è il colore della perdita, nero il rimpianto, anche il ricordo può essere nero se porta con sé la consapevolezza di avere oscurato una parte di vita, nera è la terra che respinge ed esilia. A primo acchito il titolo della raccolta mi aveva portato a pensare che si trattasse di una sorta di ulteriore denuncia delle maledizioni geosociali della Sicilia, ma la lettura mi ha portato ad altro convincimento perché l’isola nera che racconta Lena è molto altro, è una metafora individuale e universale, è quello che si vuole cancellare ma le cui radici non è possibile estirpare e con questo testo Lena lo testimonia, aggiungendo dolore al dolore con una coscienza autoriale nuova, accordando la cifra stilistica ad una risoluzione di più ampia compiutezza rispetto alle sue prove precedenti. La poesia di Fernando Lena nasce negli anni ’80, un decennio che possiamo definire l’antefatto del nostro presente, e ne raccoglie tensioni e esiti. Era il tempo del cosiddetto edonismo reaganiano, degli yuppies, l’inizio di un ciclo che proclamava la felicità individuale e l’esigenza del frivolo e la poesia virava verso una dimensione autoreferenziale in cui era molto avvertita l’esigenza di guardarsi dentro, di esplorare le regioni interiori in relazione ad una realtà che sembrava soddisfare i bisogni esteriori. Da qui il disagio, lo smarrimento, l’urgenza di procurarsi “una cura” per affrontare l’esistenza. Lena di tutto questo ha detto: la droga, la disintossicazione, l’internamento nel frenocomio per curare la dipendenza e la convivenza con gli alienati, in una sorta di autoanalisi che ha riscattato la difficoltà e la pena del vivere. Black Sicily è la riconversione, l’eversione dal tempo oscuro, l’epifania della Parola Nuova. La terra che racconta è sì ottenebrata e talvolta anche tragica, racchiusa nelle valve di un residuo provincialismo, ma anche ricca di umanità, di valori che resistono alla barbarie dei tempi, di persone che malgrado tutto esprimono la voglia di andare avanti, di trovare “nel nero confuso dell’isola” il mondo. Il sole è nel bicchiere di granita bevuto al tavolo di un bar mentre intanto ti sorprende un agguato che fa “fluire il sangue come sciroppo d’amarena”. Nella poesia numero trenta della sezione Ematismi barocchi il poeta recita: “Fortunato è colui/che trova nelle ferite la causa/anche perché a sanguinare/ci si abitua presto/tra questi muri a secco.” Versi di un’ironia amara, emblema della disposizione ad accogliere della propria terra il bene e il male, perché “ poi ci sono vite che non si possono spiegare.”

Il discorso poetico di Lena si articola in due direzioni, il presente e il passato, collegate da un invisibile filo che le ricompone in un unicum di dolente costrizione, il dialogo in assenza con il padre perduto si raccorda con la realtà vissuta dal figlio, un nodo che diviene ragione per prendere coscienza del male. La morte del padre costituisce uno snodo risolutivo nel percorso artistico di Lena che segna una virata direzionale. La sua poesia esce dall’osservazione della realtà claustrofobica che abbiamo conosciuto nella raccolta La quiete dei respiri fondati, si sgancia dall’esplorazione chirurgica dell’alienazione e si confronta con la malattia del dolore quotidiano in quella Sicilia nera dalle dure radici. Parlando al padre e del padre l’autore mette se stesso di fronte alla verità del piccolo universo in cui vive, microcircolo il cui sistema sociale e civile è costituito da comportamenti ipocriti e perbenisti. La parola poetica allora si fa dura pur conservando un sostrato di indulgenza che ne mitiga il rigore, “e sarebbe / una parola leggera la nostra/ se di tutto quel passato/ lasciassimo le cicatrici alle pietre”, leggiamo nella poesia La piccola città, testo paradigmatico di una condizione disagevole modulato su tonalità pacate, e a tratti anche vivaci, che alleggeriscono l’asprezza della realtà rifiutata.

Il testo incipitario della raccolta è la porta che ci permette l’ingresso nella sua trama dialogica, il consenso a penetrare “in un mondo tenuto assieme dalle cicatrici”. Nella sua poesia Lena guarda in faccia la realtà del caos che coglie ai bordi della sua esistenza, quella che, come la definisce egli stesso, “parte senza andare mai via”; è impietoso con se stesso, si autoimpone etichette mortificanti quali: “criminale di me stesso, paroliere delle tenebre, killer di primavere”, ma la sua poesia è tanto: disperazione e incanto, realtà vissuta e metafora, luogo fisico e empito emozionale. I suoi testi si chiudono spesso con proposizioni conclusive, epiloghi quasi sapienziali rivolti al se stesso che avrebbe voluto essere e che crede di non essere stato.

Anna Maria Bonfiglio