*
Strade sterrate
Ombre trafitte, alberi grandi
delle nostre colline,
foglie grigie dello sterro
smosso da biciclette o motorini…
Nessuno prenderà il posto di nessuno.
Tutta l’insopportabile serietà
dell’adolescenza
irrora il tormento
della nostra coscienza.
Lecci, capogiri, convinzioni, denso
sangue che affiora, improvvise
apparizioni di animali
provocate dalle nostre presenze.
La razionalità tremante
dell’adolescenza
ci vieta speranza
che non sia imprevisto a batticuore.
Con rughe, fiatoni, dissimulata vigilanza
eccoci ancora, se capita, nei boschi
a sfiorare a dita aperte le cortecce
rimuginando che sono pelle
di una cosa che sente,
una cosa che come noi dentro
curva in cerchi ciechi le ferite e le svolte
finché le radici sanno bere
e non scorda la pioggia di cadere.
*
Segreti
A volte, da alcune minime vene
che crede addirittura di poter mappare
mentre improvvise incidono una ragnatela
tra lo sterno e la gola,
sale una forza che s’insedia nei pensieri
e dittatorialmente li colora:
un sapore debilitante
si mischia alla saliva degli impulsi.
Diventa la cosa più vulnerabile e insulsa
che si scorga nel paesaggio di cui fa parte.
Le linee del volto si distendono
dopo ogni ultimo respiro che esala
con la discrezione sapiente prescelta
da ogni animale quando si sente morire.
Ma non muore. Abbandono e terrore
si annullano piroettando nella ragnatela
come un vecchio ragno e una mosca intraprendente
che si scambino travestimenti e appetiti.
Nessuno nota in lui alcun fermento, niente
gli sembra preferibile al silenzio.
Attimi dilatati e gremiti di conoscenza
come quelli che attraversa
potrebbero servire a una teoria elastica del tempo.
Quando trascorrono via, se sta fumando
dà un tiro appena esitante alla sigaretta,
sorseggia, se sta bevendo, la bevanda,
si fa ripetere dal figlio l’ultima domanda.
*
Lasciarsi andare
Abbandonarsi, non importa a chi
o a cosa, a quale nome di cosa
o d’animale o di persona.
Farsi guidare. Eleggere un’ossessione.
Ma sempre un dubbio maligno lo trattiene.
No, non va per niente bene:
la discesa voluttuosa s’interrompe.
Sotto di lui era il vortice di un mare senza storia.
Invece lungo il precipizio
un arbusto, un ciuffo d’erba,
uno spasmo troppo opportuno
dei muscoli o dell’incerta memoria.
E rimane dondolando appeso,
e il suo peso lo sostiene
con tutte le forze e anche se viene
notte e nessuno lo cerca
non lascia le spine
del cardo che ha voluto afferrare.
Farsi guidare, eletta un’ossessione, all’abbandono:
non si illuda d’avere innocenza o disperazione
bastanti a lasciarsi andare.
A quelli come lui l’unico premio della caduta
è il vivo dolore
che inculcano le spine nelle dita.
*
Un giorno giovane
Tu che leggi e ti senti presente
a te stesso e alle mostrine dei giorni
vuoti o pieni, come passano, di segni,
se sei tu che leggi e cerco
allora senti:
butta giù al posto mio il mio alibi,
sottovoce, sì, ma spiega come mai
l’ardire di fare come tutti, e la voglia,
conquistino oggi la mia mente
e, tra le falle di ogni chiglia in cerca,
io trovi intanto
la forza di non esserne stanco.
Dillo tu, come ti viene, che
le prime ore, la mattina, anche per me,
se sono sveglio, conservano freschezza
e assurda fame, con te, con gli attimi, di amicizia.
Prova ad aggiungere, e terminare, che, per me,
il vuoto allora è ancora un vortice
ma smette il suo orgasmo e sprizza
nervosamente un giorno giovane
in cui credo a tutto,
perfino a te a me e ai segni che batto.
*
Sogno di noi
Il sogno, infantile e senile, che da sveglio
mi capita di sognare se avverto desolazione,
è la confluenza di tutte le persone che nel tempo
siamo state, io e chi ho amato, in una sola essenza
che abbia qualcosa di noi tutti e soprattutto
la coscienza di ognuno sciolta in una coscienza collettiva.
Un mostro, una creatura essenziale che ci racchiuda,
come la fusione di tutti i proiettili
di una battaglia senza superstiti
fusi insieme in un bizzarro
blocco senziente di metallo.
Lì dentro ci agitiamo ancora, spingiamo
di qua e di là le nostre volontà
ma incapaci, così fusi, di crearci vicendevole dolore.
Piuttosto, il movimento testimonia ancora vita,
è accolto dall’amalgama come un solletico
che ridice ciascun nome
e il sollievo di averlo stinto dentro
la fornace che ci ha indeterminato.
Appena nati, e adulti, vulnerati, e ragazzini
dal passo molleggiante, insieme, ognuno condiviso,
con i sé stessi che è stato, con le voci che ha avuto,
con i movimenti che lo hanno guidato,
con i pensieri, anche i più lievi, che lo hanno abitato:
uno strepito instancabile e inudibile
dentro il gomitolo compatto che siamo diventati
per non perdere nessun filo di noi.
E sogno che sia un’aggregazione quieta e lucida e costante,
e sogno che sia una repubblica eterna o almeno
perfettamente sorda alle notizie della morte.
*
Paolo Maccari, Quaderno delle presenze, prefazione di Gian Mario Villalta, Le Lettere, 2022

Paolo Maccari (Colle Val d’Elsa, 1975) vive e lavora come insegnante a Firenze. È poeta e critico letterario. Ha pubblicato i libri di poesia: Ospiti (Manni, 2000, con prefazione di Luigi Baldacci), Fuoco amico (Passigli, 2009), Contromosse (Con-fine, 2013), Fermate (Elliot, 2017), I ferri corti (autoantologia delle raccolte precedenti, collana Gialla Oro, LietoColle-pordenonelegge, 2019), Quaderno delle presenze (Le Lettere, 2022, prefazione di Gian Mario Villalta). Sul versante critico, ha introdotto e curato opere di scrittori italiani otto-novecenteschi ed è autore di una monografia su Bartolo Cattafi, Spalle al muro (SEF, 2003) e di un volume su Dino Campana, Il poeta sotto esame (Passigli, 2012). Dirige con Valerio Nardoni le collane di poesia dell’editore Valigie Rosse.