Di seguito, pubblichiamo il secondo dei tre interventi di Emilio Paolo Taormina, Nicola Romano e Franca Alaimo, interpretati durante la presentazione del libro di Salvatore Sblando “Ogni volta che pronuncio te”, svoltasi a Palermo lo scorso 13 aprile 2016 alla Libreria Macaione.
Per quella che può essere finora la mia conoscenza, Salvatore Sblando sembra frequentare la poesia in punta di piedi, in maniera discreta e – oserei dire – in maniera sorniona, perché – a mio parere – egli sa di essere a buon diritto dentro la parola poetica, sa di abitarla con un regolare permesso di soggiorno, e se la gioca con una misurata abilità e con una modulazione lessicale che nella sua pseudo fluidità d’impatto sa immergersi, con una riconoscibile forza di penetrazione, nel cuore di alcune atmosfere – sia direttamente personali oppure tratte dai nostri giorni – mirando sostanzialmente nel suo intento più a comporre che a scomporre; comporre, cioè, quelle armonie e quelle beltà che dovrebbero avere i nostri giorni e che invece – come sappiamo – si vanno smarrendo dentro i vicoli delle più bieche vicende o dentro i percorsi delle più assurde distrazioni, che comunque egli tende a tenere da parte. Nei testi di questo volume, non ci è dato assistere a particolari pene, a particolari afflizioni, a risentimenti di qualsiasi sorta, ma ogni paradigma ha la sensazione dell’emissione di un sussurro, quasi di un volo che viene spiccato, non tanto verso l’alto come si potrebbe immaginare, ma fra quelli che sono i solchi scavati dal tempo dentro la propria anima.
Pur essendo la sua poesia calata nella tipicità dei giorni d’oggi, pieni d’incertezze e di clamori sociali (temi che egli affronta con piena consapevolezza e con distaccata – ma non troppo – partecipazione), sentiamo che Sblando sembra un giovane d’altri tempi, nel senso che, da quarantene inoltrato, sa abbracciare i valori positivi e genuini che certamente risiedevano maggiormente nei tempi passati e meno turbolenti di adesso
Ho aderito con piacere a questo incontro, per conversare soprattutto con dei cari amici, e per restituire semplicemente e in maniera sintetica – da parte mia – delle riflessioni di lettura sul suo secondo libro intitolato OGNI VOLTA CHE PRONUNCIO TE, che abbiamo scelto per motivare maggiormente questo incontro; ed anche perché, con tutta sincerità, ho trovato taluni parallelismi tra quelle che sono le caratteristiche espressive a cui Sblando dà corso attraverso la sua scrittura, ed il mio gradimento d’approccio o del modo d’intendere la poesia in genere, non disgiunti da quegli spessori di humanitas presenti nei suoi versi. Caratteristiche che, tra l’altro, sono state ben messe in evidenza all’interno dell’attenta prefazione di Davide Rondoni.
Ironia (che in greco vuol dire dissimulazione): se è fine a se stessa, se abbraccia soltanto la parte della bonaria enfatizzazione nuda e cruda, se non sa portare alla ribalta il vero significante, andrà a restituire una caduta verticale a tutto il discorso versificatorio, e – come dice Giorgio Linguaglossa – lo porterà verso il basso, ponendolo in una evidente situazione di minimalismo. L’ironia d’una certa efficacia – aggiungiamo noi – che si avvale possibilmente d’una certa originale fantasia e di un’articolazione anche pungente, invece, pone con estrema convinzione un problema o una tematica; con un certo effetto ne sottolinea l’urgenza e la sua drammaticità; serve quasi come una sorta di provocazione, come sfida, può avere perfino dei buoni esiti di denuncia, rappresenta – in buona sostanza – una negazione del reale, e che tende a svuotare tale realtà con un’operazione sempre e comunque controllata; operazione, questa, che impedisce all’io di perdersi da se stessi e dal mondo. Ed in tale esercizio si afferma, secondo me, anche una certa coscienza critica che può sfociare anche in taluni precisi segmenti di saggezza che magari si risolvono con una buona dose di apprendimenti per poter vivere nel mondo, senza restarvi impantanati. Insomma, la gradevolezza dell’ironia si afferma quando tale pratica ha certamente un senso, e – nel campionario delle espressioni di famosi poeti che conosciamo – racchiude molto senso la frase di Cardarelli, che disse: “Io la vita l’ho castigata, vivendola”, in cui l’ironia si manifesta con tutta la grandezza filosofica del suo assunto.
Sulla disappartenenza, altra caratteristica messa in rilievo da Rondoni, penso che Sblando, volutamente, voglia defilarsi da ogni ingorgo quotidiano o da ogni querelle, si limita al confronto con quelli che sono i rapporti umani – depurati da ogni possibile inquinamento – al fine di affidare alla parola poetica la trasmissione di alcuni suoni o segni rarefatti, onde restituire all’espressione poetica il suo vero significato e, di riflesso, affidare ad essa l’articolazione del suo modo di osservare il mondo, al netto di quelle che potrebbero essere le azioni pericolose e fuorvianti che si annidano dentro il normale vivere. In parole spicciole, a Sblando sembra soprattutto interessare il personale rapporto con i suoi simili, con gli avvenimenti e con le cose, senza alcuna intermediazione. E, per tali motivi, in tutto quello che è il suo andamento versificatorio non si intravedono affatto dei segmenti di ordinaria solitudine, per come avviene in tante altre manifestazioni poetiche; i suoi versi sono sempre vivi, fruscianti, pullulanti, accompagnati da altre figure riconoscibili o meno, con le quali intesse una serie di dialoghi strumentali ed interlocutori, fino a trovarlo – sembrerebbe – al centro di un palcoscenico, che sa ben calpestare con la sua forte presenza introspettiva.
Da non tenere in disparte, e anzi è da evidenziare, anche un certo andamento speranzoso nel dettato che Sblando propone, perché non c’è mai una determinazione, una chiusura parziale o definitiva nei suoi versi: pur rimarcando alcune amarezze o imperfezioni, egli finisce col dare sempre un confortante abbraccio alla vita.
In questa raccolta Salvatore Sblando, con una voglia di riuscito coinvolgimento, sembra raccontarci – seppur con controllata pacatezza e con un ampio respiro poetico – la sua meraviglia, il suo stupore per un rapporto con la vita che potrebbe avere migliori risoluzioni, e che invece porta sempre e comunque ad una incompletezza realizzativa se – come egli dice in una poesia di sicuro effetto – “siamo le parole che non scriviamo” oppure “siamo la voce che non sentiamo”. Ma dentro tale palese inquietudine, Sblando scioglie con disinvoltura la parola poetica per modellare al meglio talune precise sensazioni e talune profonde riflessioni che prendono spunto dalla quotidianità spicciola, e che indulgerebbero certamente all’implosione ed allo scoramento se non sopravvenisse quella ricchezza di slanci immaginativi che egli sa mettere in atto, tendenti a trasfigurare una realtà monotona e irridente. Attraverso un andamento prettamente dialogico, Sblando sembra instaurare un costante colloquio con una individualità “altra” che può o meno avere apparenze fisiche o che potrebbe identificarsi con il suo alter ego, e comunque sia, l’autore si confronta a largo raggio con le modulazioni prossime o lontane del vissuto, mettendo in atto quel necessario distacco emotivo per meglio decifrare e poi pilotare il flusso dei disagi o delle questioni indecifrabili. Le quattro sezioni del libro vanno a rappresentare, in buona sintesi, un’unica vicenda di vita vissuta, che offre ampi spazi meditativi nel rapporto tra il suo – o il nostro “sé” – e il mondo esterno. Per concludere, se ci è permesso di aggiungere, in modo riassuntivo ed elogiativo, una piccola coda al titolo del libro, io direi che: “Ogni volta che pronuncio te… si apre un mondo nuovo”.
Nicola Romano