silvia comoglio

 

Boris Pasternak scriveva a Anna Achmatova che il suo sguardo di poetessa era «conduttore di scintilla» nel far pulsare le cose. Queste parole di devozione ben si adattano allo splendore che freme in un’opera come Afasia, raccolta poetica che Silvia Comoglio ci regala nella collana Nuova Limina di Anterem Edizioni.
Leggendo i fulgori tenui e rapidissimi con cui Comoglio scandisce e struttura interi universi di percezione e trasmissione, viene da chiedersi quale sia la facoltà sensitiva con cui intendere un respiro, un bacio, l’affondo di una radice nella terra, il ribaltarsi di un’eco alla sua origine.
Forse una particolare sensibilità organica, come quella di certe biologiche membrane, gremite di recettori e catalizzatori, in attesa di uno stimolo che sia biochimico incontro e riconoscimento, cui segua liberazione mitocondriale di primigenia energia, trasdotta in visione e ritorno. O forse una capacità simil retinica di decodificare onde elettromagnetiche in oggetto neurale, farlo notizia, sagoma, profilo, annuncio.
Ed è questo il disvelarsi del nuovo che viene ritrovato: una commozione che, nell’atto dell’affidarsi, diviene quieta, estatica, e a un tempo s’adorna di un tintinnare ritmico, sincopato, come un segnavento in odore d’azzurro. Traspare in esile balenio, scandito nell’istante come una presenza spirituale, non registrata dall’occhio fisico, non soltanto; restituisce grappoli di frutti e corsi d’acqua stillanti, e cime e bagliori, e impulsi luminescenti; è un osservato vivido e palpitante in cui s’è accumulata tensione celeste, che attende d’essere intuita, rilasciata e resa in pulsata corrente.
Albeggia quietamente, e talora trapela come costellazione notturna attraverso le nubi, un universo che fa inizio e passaggio nell’iride ammaliata del poeta; anima aperta che, mentre s’illumina di presagio, inciampa nel proprio battito, e riconsegna un idioma sconosciuto: nasce allora un’aurora di parola che precede l’arcaico sillabare, nuovissimo e costitutivo miracolo verbale di afasia; un’espansione verso territori di confine, dove la coscienza si fa volatile e dispiega un suo diverso modo: di vedere mediante toni acustici, di udire per lampi.
Un codice destrutturato, in cui il solenne e il sublime discendono sorridendo, e la cosa arcaica che sussurra il segreto diviene freschissimo stormire di brezza marina, miele di rugiadoso tappeto d’erba.
Il contributo sonoro di Comoglio accende vallate di torrenti e chiarori, avanzando nella ricerca tonale e arretrando nell’impianto logico-sintattico, non verso l’ingenuità, ma piuttosto verso un radicamento, un affinamento, un rastremare in luminosa sottigliezza, che emette infine solo i suoni a fondamento della visione, nella direzione di un’esilità potentissima, che è l’essenza stessa della poesia.
Nella sua parole siamo condotti per porte magiche a elevarci in rinascita, in un infinito sfavillante e minuto, fatto di micropercezioni prive di netti confini sensitivi, affrancate dal pesante ragionare che, codificando, allestisce e cela, erige e deforma: «astro, in cento grammi!, la terra / mutata a bosco? il – disimparare / dell’albero del mondo / la maschera d’insieme, l’occhio / che sale a fiore».
Se qualcosa ancora esiste, questo canto lo intercetta: come accade con le sagome nebulose e i tratteggi, i profili lucenti che ricordiamo dal sonno, ma che evaporano al desiderio di rievocazione e d’incontro, al reiterato interrogare il ricordo. Così, qui il poeta ci fa una narrazione precisa, addensando per il tempo consentito immagini impalpabili, fessure d’ispezione gentile all’agognato sopramondo, accendendo, in chi legge, incanti e nostalgie di un dove e di un come mai esperiti.
Sapiente, Elio Grasso in postfazione convoca «significativi sospingimenti» e «metamorfosi organiche», ritmi e timbri prosodicamente «verticalizzati» ad allegorizzare un cammino in elevazione; e «avventure sillabiche ispiranti» che divengono «occasioni ottiche» e «zampettii nello spazio», da udire «in pienezza di sensi» nel teatro planetario.
Ci troviamo di fronte a un misticismo arcadico, scintillante di fonti e boscaglie, ma assottigliato in presenze tintinnanti e argentine, uno zufolare e un balenare, in corolle e sorgenti, in soprani e triangoli.
Dall’afasia che segna l’inarrivabilità e la resa del linguaggio, l’«antimondo» chiama per baci di luce e pigmenti di clorofilla, donando chiaroveggenze e aeree aspersioni di iridescenza. Ed è qui che, accorta, Comoglio ricorda come l’incontro non sia nell’ottuso avanzare, ma nel silenzioso stupirsi, nello spirituale posare e lasciarsi risuonare: «[per fare il vostro volto occorre — / questa luna, questa sola chiglia / di tempo silenzioso, di Sempre / uscito dal suo mondo».
Così Maria Grazia Calandrone: «il mondo era un’opera grezza, un non-del-tutto / compreso intento della grazia», e ancora: «lo splendore della costellazione, fermamente / soffiarlo alla superficie del mondo come il silenzio di una / cava): / che spargimento / sul caldo umano come di lucciole sulla campagna» (Serie fossile, Crocetti, 2020). Accesa da nostalgia sorella, Calandrone ripercorre la sua genesi cosmica, con un’iconografia anch’essa avvedutissima, sebbene più materica e primitiva: pietre e rettili, guizzi d’occhi, un accadere sinuoso, carneo, parificato in luce immobile, remota. Quella di Comoglio è invece una genesi ritrovata e presente, che balugina in sottile vibrazione, in selve e zampilli, in radiose intercapedini di rivelazione.
«C’est à force d’aimer qu’on trouve», diceva Prudhomme facendo dialogare cuore e ragione, e ancora in Orsa maggiore sentiva «quel remoto splendore ciecamente irradiato» che da tempi immemori «va mirando l’umanità vivente»: scheggia di sconcerto, verità rivelata in cifra, nel firmamento.
E anche in Comoglio, con ispirazione verticale, oroscopica negli anni, è proprio amore lo strumento cognitivo di corso e approdo, di contatto e decodifica, ma anche il pacificato esito dell’intendere, dell’essere, infine, non più disgiunti dal reale, ma da esso teneramente pervasi: «Questa luce – è enorme mondo / riposto in uno sguardo, paradiso / di tempo all’infinito, a misura / di frattempo: álbero che nasce / sul varco – dell’único tuo ingresso, / nel regno in cui potremmo / – dell’áttimo narrato – amare / sempre tutto, fino – all’úl-tima parola» (Canti onirici, L’arcolaio, 2009).
In Afasia, la poetessa varca l’adito esiguo, che «mugola di fiaba», ed è celato in tenui e magiche presenze, in «albero a sonaglio», in bosco e germoglio; è orso e capriolo, è sacra radice, e ogni creatura in bilico sull’impermanenza, gracile e maestosa, in piena lealtà di fiore: «[che il fiore ora si rischiari, / perfetto di coscienza, di terra — / arsa e be-nedetta».
Siamo tra creature inanellate in splendori cromatici e ritmici, affratellate in primigenie nudità che preservano luci e tepori; un mondo ricurvo nel fiorire e nel radunarsi volo e nutrimento, meraviglia che richiama a sé la confraternita dei sensi per farne bacio, fuoco e risveglio, garbato ritorno, in silente e sontuosa passacaglia: «le terre, disse, venute a prime luci / sono volti per essere e vestire / alberi lontani e bimbi a passeri d’inverno: / i vivi, e più lucenti!, sguardi modellati — / sul battere del mondo, in sintomi che sono / di nudi amori nudi».
Il tragitto è a risalire, verso una foce del comprendere che si è opacizzata nel farsi materia delle cose: «… contratta, disse come ipnosi / fu la terra, a ritroso, disanimata …»; ma, nel «tempo di piccolo scandaglio» è il sacro stesso che ci viene a risvegliare, con premura: «Iddio d’amore pieno nell’ebbrezza / del lampo più profondo, del tempo, / a fiato misurato, in frammezzi, ciechi, / di parole: orme venute in orizzonte, / a crisalide di fiore, a gemito che muove, / in luce residuata, la terra, svanita sotto ponte, / a conta di límpida radice».
Perché il cosmo, subito dopo il primo soffio di luce, è stato avvolto nel riserbo: «venne, in asse, con l’angelo del cielo / il fiore arciere di silenzio, e fu mondo!, / mondo a orecchio teso, terra che due volte / tu vai morendo», facendo sì che la natura, di per sé sonora e significante, si ripiegasse nella sua ombra di dolore, conservando però un tenor di amore «fondo, e lu-minoso».
Realtà sbigottite e siderali chiedono ascolto affacciandosi in fessure dall’antimondo, e si protendono verso chi accoglie la norma del posare, del «minimo restare / del fiore sopra l’acqua», ottenendo così facoltà di vedere, nella opalescente nube di afasia che si genera allora attorno alle cose, una «terra – innámorata a falda di eterne / piume più leggere». In virtù negativa, remoti, far tesoro del patire, e in purezza, mirare: «…disse che gli eremi più corti / sanno già guardare tutto come icone, / specchiare, sulle febbri, silenzi più nodosi, / le voci! trásudate a labbra di rosso pa- / radiso».
L’io desiderante fatica ad affidarsi con morbida letizia, e ad acquisire «chiaroveggenza»: «duro è l’í-narcarsi ad amen / di questa stessa bocca rotante a gi-rasole», unica strada che svela il mistero della creazione: «[L’albero-lanterna è l’ultimo segreto, / il sonante, e eterno, strisciare delle ali —», che altro non è, in sé, che pura reminiscenza: «Elmo in piena luce, di impotente chiaroveggenza?, / è l’eco, a primo soffio, tenuto in fede di parola, / come se puro solo bacio rimasto sulle dita a car- / dine stellato —».
Afasia è «sponda nuda di stupore», è soglia della «casa dello sguardo» che emancipa da una materia frantumata, verso una visione soffice, compassionevole, di fulgida consapevolezza: «Un giorno avrò un sogno che uscirà dal bosco — / prezioso ordine a saperci identici contrari, specchiati, / a mondo di traverso, dentro il suo chiarore — / di cuspide di sguardo único d’amore».
Il mondo che torna ad allinearsi con sé stesso, a sintonizzarsi in essenza, riconquista una «marcia a fiato» che fa esordio, che fa alba. Ecco la gioia: «scherzosi occhi di mondo che ritorna, / dove, dove si suppose, / che questa, questa fosse casa, / casa sopra l’acqua, questa stella! / di ghiaccio per-meata —»; il reale, negl’istruiti istanti, riprende a vibrare in armonia con la propria genesi, ricelebrata e reiterata in rivelazione radiosa. L’origine è un punto che trema di verità, riguadagnato ora ai sensi per perizia d’ascolto: l’antimondo s’incarna nell’attimo per mano dell’angelo, vasaio d’amore: «come, come se-mi-amasse!, sbianca / l’angelo sul mare interrando — / le ombre delle stelle in alberi che sono / neri – fiori – e incanti».
Nella rivelazione puntiforme, «eco venuta a picco», bacio aureo appreso in «supplici fessure / di boschi», la nostra natura di umani non cambia: siamo creature dalle pupille velate, che non sanno, non riconoscono; ma, se pur imbozzolati nell’abbaglio sotteso al passaggio, allo scambio, al pallido corso delle nostre vite, possiamo accogliere il «lucore di gigante», «il cuore traboccato», ed esser visitati, questo sì, da un «pesce d’oro, senza lisca e senza spine» che grida per noi un oriente biondo e aurorale, mirifico, radiante nel fior di loto e nel pesce d’oro, parziale riscatto dal dolore della materia, risveglio spirituale sofferto, che profuma l’istante di eternità.

Isabella Bignozzi