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Mariano Ciarletta, Il vento torna sempre – ed. La vita felice, Milano 2018

Il libro di Mariano Ciarletta, il vento torna sempre, fin dal titolo è libro denso d’immagine. I caratteri che formano il linguaggio della psiche qui si vestono dell’apparire, dei fenomeni, del nostro mondo amato della vicissitudine, dal vento agli alberi e fino al cielo alla terra e all’orizzonte. Già questo primo elemento, subito evidente, tornerebbe alla poeticità dell’insieme.

Ovviamente, i caratteri si compongono in un linguaggio, che è il modo presente al poeta di leggere la propria esperienza del mondo.

Si tratta di una prova, di un tentativo importante e sincero dell’autore, di chiarirsi i connotati, la vita del Sé, la vita fondamentale della mente e degli affetti. Pertanto si tratta di un tentativo autentico. Lo si ravvisa dalla poesia di apertura, una sorta di autopresentazione:

Ho gettato un sasso

tra le tumultuose onde

roccioso pugno carico di domande.

Ho atteso le risposte dell’eco dei venti

ottenendo silenzio rimontante. (Tumulto, 9)

L’interrogativo, fermo e duro, combattivo come l’enigma di cui ci tramanda il pensiero antico, o l’enigma della vita, è al tempo stesso palpitante e carico di umana curiosità sul mondo, perché il suo carico intenso di domanda lo rende a misura d’uomo, immediatamente: e la risposta all’attesa necessaria è quella soluzione di silenzio a cui perviene, o che perviene, o almeno la tendenza al silenzio: perché, come ai quartieri del silenzio infine tende la vita, così questa è la risposta alla domanda, e al silenzio (non all’enfasi o agli effetti di clamore o di strepito) tendono i versi veri.

La vita è fatta di ciò che incontriamo, sebbene non gradevole affatto (sul bullismo: p. 10) o poco gradevole, almeno nel paragone dell’essere irretito e divorato (nella tela di ragno: p. 15), anche se poi nella realtà l’esperienza non mancava d’una carnale piacevolezza; di ciò che si profila ma non si dà (lo spettrale, p. 11). Di continuo, il piacere e la gioia di vivere vengano contraddetti dall’esperienza della caducità delle cose (Rita Pacilio scrive “fragilità” a p. 5 della Prefazione) – così a mio avviso si leggono le inesistenti domande della nostalgia di p. 17, i sensi perduti a p. 18, ancora il segreto venato di nostalgia a p. 19, soprattutto a p. 20, quella inequivocabile coperta gialla; i versi del “non ti dirò” a p. 22 e dell’orgoglio sanguinante a p. 23, poi quelli delle pp. 24, 26, 27; l’annullarsi delle pp. 25 e 33, che non è solo un perdersi nell’altro, con l’altro, ma anche comporta un rischio di brusco risveglio nel niente. E perché, anche al presente, e stavolta non al passato, in quei tre duri versi di p. 27, tra lenzuola “aride”, la luna, compagna e amica degli amanti, invece “infidamente spia”?).

Eppure.

Eppure il libro, nella icastica brevità che suggerisce l’estremo controllo del lavoro sul verso, apre alla speranza: “io che conosco speranza”, vi si legge (p. 16). Non può essere diversamente, dal respiro di mondi che incontriamo in Purpureo , versi che rimandano all’apertura verso la trascendenza (p. 12), al positivo presente d’amanti come di rette parallele, quelle di numeri e lettere, che pur s’incontrano, atteso che i numeri abbiano un cuore e pure le addizioni sappiano fare l’amore; eppoi la rassicurante presenza delle donne-madri, cioè virtualmente tutte le donne, le quali sanno ciò che non sappiamo e che sapremo (p. 31). Alla fine di questo sentiero di ricerca troviamo un apprendere importante “oltre il ponte delle parole,/tra una richiesta di fiducia/e una mano tesa nel buio” (p. 32); il che viene puntualmente applicato nei bei versi del rosso legame (p. 34) che chiudono questa parte e che si presentano, in un impianto di reiterazione del “sappi che”, non meno come un invito rivolto a lei, all’altra, che a sé medesimo: si tratta dell’avvio verso una concezione più alta dell’amore, direi di tipo cosmico e sovrumano, sovraindividuale: l’amore, si legge, sebbene sia “inciampo/di sassi” e “salite impervie”, tuttavia “non è ladro”, “rispetta”, “non confonde”, “non lascia lividi … né tagli” e “protegge e “nutre”.

Da come vengano poi intesi questi assunti di partenza, dipenderà la vita e, credo forse, la poesia.

Un terzo elemento che trovo nella scrittura dell’autore è quello del recupero del valore sapienziale della poesia, che è un tratto dell’arcaico nella poesia e nella cultura, ma sempre ritornante e sempre presente, e credo che dovrebb’essere così. Le modalità del ritorno sono differenti, nelle due parti del libro: il modo in addensati e nubi di parola nella prima parte in poesia, da cui scaturiscono luci improvvise, secondo un carattere che probabilmente l’autore avverte nella poesia in genere, o che nella sua poesia è, allo stato, determinante; modalità risolta, o tendente in modo evidente a una composta risoluzione, nella parola degli aforismi finali, poche pagine, ma a mio avviso con notevoli risultati.

Non altrimenti si leggono i riferimenti alla calma del pescatore, all’essere sempre così/non essere mai più uguali; al ritrovare se stessi nei silenzi, al canto che dopo i silenzi risorge (p. 39), agli amanti che, seguendo la “filosofia del fiume”, sempre si ricongiungono, al rischio di scambiare sassi per gemme o i frutti rossi per maturi (pp. 40, 41), ai ricordi che bruciano le ferite col sale (p. 41), e, ciò nonostante al doversi gratitudine alle ferite della vita, alla menzione di necessità della dignità e al pericolo delle parole soverchie (p. 42); alla personale, originale riedizione, tra polvere e nuvole, del biblico memento homo, alla verità dell’imperfezione (p. 43) e infine, a p. 44, al biasimo della vanità e dello smarrimento di sé, e il richiamo all’identità di ciò che non è con ciò che non deve esistere (ma quest’ultimo, siccome menzionato, non manca di gettare la propria ombra su tutta la prima parte del libro, d’altro canto! Le cose sono come sono, e d’altronde rinviano sempre a infinite altre cose possibili!).

Una prosa e una poesia che vanno, dunque, verso una chiarificazione di temi e anche stilistica, un mondo che va verso la ricerca della fondazione che ogni essere umano deve a se stesso, almeno in un tratto della propria strada; un libro molto elegante e attraente nella sua veste esteriore, e che all’interno mantiene senz’altro la promessa di mostrarci qualcosa.

Carlo Di Legge