Orienti è il nuovo libro di Elio Grasso (puntoacapo, 2022, nota di Anna Ruchat), il cui titolo, incisivo e al contempo misterioso, già racconta di una volontà di sottrazione, di una tendenza a disfarsi di ogni molesta ridondanza. Grasso predilige la parola scabra, con la sua nudità sonora, e tuttavia non rinuncia a evocare mondi, atmosfere, paesaggi fisici e interiori, dai tratti ora aspri ora malinconici. Il titolo Orienti ne incarna esattamente la postura: se orientarsi significa volgersi verso un determinato punto e riconoscere la via che si sta seguendo, il sostantivo declinato al plurale amplifica le possibilità di direzione. Forse un modo per non escludere nulla che possa dare senso agli anni vissuti e a quelli a venire, un risalire alle origini degli eventi, tra una memoria da non disperdere e un futuro di incerta e fosca interpretazione: “orientiamo il sentiero dei padri / al senso salino del fogliame”. Il termine oriente è la parola-faro del libro, lega i testi l’uno all’altro, appare in modulazioni e contesti diversi, e anche quando assume precise connotazioni geografiche (“oriente ligure”, “terre d’oriente”, “oriente veneziano”) si avverte una predominanza del portato simbolico (“Oriente converge nel confine che occhi vogliono consumare”).

Un altro elemento carico di forza emblematica, e imprescindibile nella poetica di Elio Grasso, è la figura femminile. In questa raccolta è sovente evocata una donna dal nome Silvia, sia come dedicataria nei titoli di alcuni testi, sia come soggetto e interlocutrice di un dialogo a distanza (“Silvia non distrarti, veleggia veleggia…”). I due motivi cardine del libro sembrano convergere: i diversi orienti, i luoghi esplicitamente nominati (Marrakesh, Genova, Praga, Venezia) diventano emblemi dell’erranza attraverso una figura di donna che è in sé simbolo di mutevolezza e di inquietudine: “[…] ma tu guarda la tua sorte / in alto nell’amore mutato, donna / stretta nelle spalle non manchi / a questo oriente sfoltito”. Visioni e paesaggi si susseguono generando un flusso continuo di domande senza risposta, “Il cammino è stato lungo, ma dove ha portato”.

Il poeta osserva e scrive nel vortice del mutamento dei tempi, ed è in questo tentativo di comprensione del presente che si rende più pressante la richiesta di un senso ulteriore. Così la poesia diventa una forma di interrogazione sul futuro degli uomini: “Chi nasce dopo di noi sognerà l’oltremare / e forse le malattie spariranno, / mani straniere per antichissime rovine”. Le parole esistenti sembrano non bastare se occorre coniarne di nuove (oltremonte, oltrevampa), ribadendo la necessità di spingersi al di là dei limiti fisici e temporali (“Dentro il confine non si può stare”, “oltre i confini d’oriente”, “oltre la morte”).

Appena fuori da un Novecento che “sa di ragioni sprecate in rancore”, anche la poesia deve fare i conti con le nuove conoscenze e i cambiamenti della realtà: da un lato, le leggi della fisica che governano ogni cosa esistente (“questo spazio scontroso di particelle e onde”), dall’altro il meccanismo cinico della storia degli uomini con le sue distruzioni e sopraffazioni (“la storia non si cura dell’immaginazione”). Non possiamo non avvertire il senso della fine di un mondo, eppure insistiamo “trepidi nell’anima e in nome ci siamo aggiunti all’epoca. Per vedere, spazio da vedere, ancora”.

Daniela Pericone

*

Contro lo sciogliersi
della materia mischiare le acque
al frapponente sole
vietando rifiuti, appoggiati
ai portoni caldi ravvedere amori
spinti fuori dal cordame serale.
Arretrare non compete a acqua
e stelle, compiersi soli è senza
dignità ma tu guarda la tua sorte
in alto nell’amore mutato, donna
stretta nelle spalle non manchi
a questo oriente sfoltito

*

Novecento che ritorna da altre
orbite, fors’anche la pioggia
richiede cura ai falsi taciturni
e scioltezza sui segni d’inciampo.
Ora non basta oscurare
la stanchezza, ma rivivere
davanti alla terra
dove il mare si piega alle labbra
dandosi da fare oltre il primo giorno
e ancora oltre nell’inedito
prodigioso oriente.

*

Saremmo come tempo discorde
nell’arsa terra attuale,
imparando dalle spiagge a cogliere
quel che s’abbarbica, spalanca, decide.
Pur volgendo al difficile
il passo si protende, la tua regione
da lassù ti rassomiglia.

*

Questo spazio scontroso di particelle e onde, possiamo immaginarlo senza motivo mentre la storia non si cura dell’immaginazione. Non potremmo essere più diversi e aspri del mondo al suo ultimo pensiero. In questa periferia faticosa, niente è gentile mentre tutti guardano la destinazione degli oggetti violenti. Insistiamo sull’Agnello.

*

Difettano le cose
nelle grandissime distanze,
null’altro che estranee polverosità
volanti sui crinali e passi come graffi
sulla pelle mostrata che procede
da una parte sola scambiando
dimora per dimora.
Ringhiano persistenti ai confini,
una specie di lingua è nel mare
e vale con essa contare i respiri
alle belve.

*

Avremo un tempo i cui i boschi saranno irriconoscibili. E, sotto ai mari, ugual sorte. Sulle lingue di terra molti avversari, deboli nelle loro credenze. Fortezza, alle nostre età, non ci fece straparlare, trepidi nell’anima e in nome ci siamo aggiunti all’epoca. Per vedere, spazio da vedere, ancora.