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Tutti gli occhi che ho aperto di Franca Mancinelli, Marcos y Marcos Ed., 2020

Delle piccolissime spirali interrompono il bianco delle pagine che separano le sezioni di Tutti gli occhi che ho aperto di Franca Mancinelli (Marcos y Marcos, 2020), segni simili ai grovigli di spine, ai chilometri di spirali avvolte su se stesse, che accompagnano il cammino drammatico dei migranti e dei rifugiati politici che hanno scelto la rotta balcanica, i quali lasciano, lungo il loro passaggio, tracce di vita: una tutina di bimbo con i cuori, ormai sporca di fango, stesa ad asciugare al vento d’acciaio della E.70, o un paio di pantaloni blu e un asciugamano verde appesi all’alta recinzione che circonda il campo di Adaševci.

E allo stesso modo degli uccelli che lasciano tracce sulla neve o, nel posarsi su una ringhiera, disegnano nell’aria un indecifrabile messaggio destinato a scomparire con un battito d’ali, appena rientrano nel bosco, così l’autrice traccia su un taccuino segni, anch’essi incomprensibili, destinati agli occhi di qualcun altro che voglia interrogarli. Poiché tutte le lingue sconosciute pronunciano segreti per ciò stesso evocanti un mondo preverbale, come possono essere nomi di luoghi quali Zagreb o Krai Donji per chi non li abiti.

È come dire: tutto il mondo è un linguaggio pronunciato dalle creature viventi (ciascuna delle quali si fa portatrice di un frammento di messaggio) che si ricompone nella plurisemanticità della poesia, la quale si assume il compito di salvarlo, anche laddove non sappia comprenderlo razionalmente.

Fabio Pusterla, che firma la quarta di copertina, scrive che le poesie di Tutti gli occhi che ho aperto «nascono da un’urgenza tangibile che non si fa mai aperta confessione: urgenza privata, biografica e urgenza etica, sempre riferita alle zone più fragili, più terribili della nostra vita associata o dissociata».

«Scrivendo portiamo alla luce questi segni che conteniamo (afferma l’autrice in Poeti e Prosatori alla corte dell’Es, a cura di G. Stoccoro), così come sono, oscuri e indecifrati a noi stessi»; e quei derelitti, che transitano, si nascondono, muoiono, chiusi fra gli argini di una testimonianza in prosa che apre e suggella il libro, sono segni, presenze, che continuano ad agire e parlare anche nelle sezioni in versi dai quali apparentemente escono di scena. Tutto, tutti chiedono non ti scordare di me.

Da ogni parte la vita urta contro un impossibile ritorno all’innocenza e alla totalità: lo sanno gli alberi, i maestri, soli e sé stessi che conoscono il segreto per resistere; fulmini scuri conficcati nella pianura, che portano sul proprio corpo le cicatrici delle potature come occhi aperti alla stagione della rinascita e al dono continuo di sé stessi.

Allo stesso modo accade lo sgorgo improvviso della parola: da un qualche recesso o taglio, da cui essa si sporge per raccontare, a fiotti e barbagli improvvisi, qualcosa che sta contemporaneamente nel centro delle cose ed al di là di esse, in bilico sulla soglia tra oblio e durata, tra cancellazione e resistenza: sepoltura. E inizio, / Sono invasata. Vivo in custodia / della terra, a mani immerse / come radici lavorando.

La poesia, infatti, non è diversa da quello sguardo che nella variegata e infinita macchina iconica del reale indaga il senso segreto che la muove: la volontà di dirigersi verso un altrove di grazia e di caritas (dietro questa faccia di cartapesta / risplende in tutti un sorriso perenne) dove tutto sia recuperato attraverso un gesto di accoglienza empatica. Lo sa per lampi di continue epifanie, che vi si approssimano, ma non lo disvelano, lo intuisce in ogni creatura.

Per questo motivo è difficile distinguere il passo di tutti i derelitti, di tutti i morti da quello di ogni altro vivente come da quello che fa la poesia mentre avanza nella stanza del corpo e l’invade, scrollando tutte le molecole di vita che ha raccolto.

Solo in questo senso si può dire che la poesia di Franca Mancinelli sia una metapoesia, offrendosi come un’indagine sulla sua origine e sulla sua lingua, nonché sui suoi risvolti non-razionali, in particolare nella sezione Luminescenze, da cui possiamo dedurre gli elementi fondanti della poetica dell’autrice: lotta contro un confine mobile, invalicabile e obbedienza a una lingua bianca e devastante; moto circolare con al centro il mistero, lo stame / del tempo, con i dove [che] sono tutti provvisori, convergenti a l’infinito dei morti. Per ultimo, un rito di purificazione, simile a quello della neve: La neve è caduta su tutto questo, ha ristabilito la pace che ora calpestiamo: questo silenzio, questa solitudine di alberi carichi dei frutti di gelo.

Franca Alaimo